05 Dicembre 2010, 00:11
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Se non l’avessero portata di forza e se magari fosse stata più salda nel
tenersi aggrappata al rubinetto come una sartia di una nave, Tina non ci
sarebbe mai andata. E nel rifiutarsi sembrava quasi un bambino a cui devono
fare l’iniezione e si nasconde per non farsi acchiappare dalla madre. E Tina
era sì, una bambina nella statura, ma non certo nell’età se era vero che si
recava alle poste da quasi quindici anni e che da venti aveva perso suo marito
quando era in età da bastone. Eppure l’età era soltanto una delle tante
menzogne del governo, e quindi della carta d’identità naturalmente scaduta e
mai rinnovata. Non avrebbe avuto bisogno di quella foto sulla carta perché non
sarebbe mai uscita, ne era convinta e convinti erano pure i figli che la
consideravano l’albero di quella famiglia che si odiava con gentilezza e che
trovava in lei la parentesi delle proprie invidie. E invece ci dovette andare
all’ospedale portata dal figlio più piccolo, anche lui più per un eccesso di
sicurezza che altro.
Con fastidio era entrata in ospedale ma stranamente sentiva allentarsi la sua resistenza e a piccoli passi incedeva verso l’ambulatorio. Come se un ambulatorio fosse la fine del suo malessere. Tina era sempre entrata in ospedale per delle visite, per il parto ma non aveva mai visto gli sputi sugli origlieri, quell’odore di alcool e sudore stantio quasi messo sotto vetro e diffuso come in piccole dosi. I suoi genitori se ne erano andati sulla terra, e non per dire, erano morti proprio mentre lavoravano in campagna come i muli, d’altra parte non avevano nulla quando arrivarono in quel piccolo paese. E che dire del marito. Se ne andò facendo rumore come un unico tocco di campana, un battaglio che distruggeva la campana, così come quel foro sulla sua nuca di vecchio elegante. L’avevano trattenuta per una notte, tanto che la sorpresa aveva scosso i nipoti abituati a vederla sempre appoggiata sull’uscio di quella grande casa che li teneva tutti dentro come un orcio.
La rispedirono a casa per prepararsi, ed era forse questa la concessione più bella che si potesse fare agli emigrati con la ricetta-passaporto. Preparò la sua prima borsa da viaggio, e rise quando chiuse la lampo e cercò di portarla; si
vide allo specchio con quella borsa colorata come l’arcobaleno e che lei temeva
perché mischiava colori che alla sua età aveva imparato a separare. Arrivò in
quell’ospedale che sarebbe stato chiuso da lì a poco, insomma era come quelle
case che stanno per essere lasciate per delle case più nuove. Ma non era poi
così vecchio, era circondato anche da qualche siepe ed un piccolo cortile
separava l’ospedale dalla strada. La stanza era ordinata e neppure troppo
affollata visto che erano soltanto in quattro, vicino al suo letto una donna
ridotta a poco peso che come lo zucchero si scioglieva su quel materasso di
piume accudita da sua figlia. La sua vicina si chiamava Angelina, e nei suoi
lamenti si dipanavano momenti di veglia e ragione, tanto da riuscire a parlare
con Tina che doveva essere operata a giorni per la stessa malattia che stava
consumando la sua vicina. E in realtà Tina provava un naturale senso di ripulsa
nel parlarle, ella nonostante quel piccolo bottone che si portava dentro, era
ancora un insetto piccolo nel mondo, nascosto ma vivo. Quando entrava il suo
dottore sembrava come quelle alunne civette che volevano chiamare l’attenzione dei maestri, quelle che alzano la mano e hanno la risposta tra i denti ma devono aspettare che gli altri sbaglino prima di rispondere.
Il dottor Montini era l’oncologo che aveva iniziato a seguire Tina e lei si riempiva di fierezza nel vederlo. Era un uomo sulla cinquantina, di quelli che con la loro figura occupano la porta, eracleo e con il pizzo che gli lasciava libera solo la bocca per esprimere responsi. Era anche uno di quegli oncologi che dovevano spingere la morte un po’ più in là; viveva il suo compito come un vigile del fuoco che spegne incendi senza bruciacchiarsi la veste e i peli ma più che nel fuoco, credeva nella forza dell’acqua e del suo bisturi che usava come un estintore. Montini era presuntuoso quasi doveva, come Sisifo doveva prendere in giro la morte e risalire in superficie. Tina nel vederlo si rassicurava, e ascoltavacon fiducia i lamenti di Angelina convinta che lei sarebbe stata più forte e fortunata.
L’ospedale lo immaginava come un posto triste ma tutto sommato era invece vivibile, e la città non era poi molto diversa dal paese pensò. Suo figlio veniva ogni mattina, per la prima volta aveva avuto paura di perderla e lei se lo stringeva preoccupata per quell’unico pulcino rimasto vicino la chioccia. “Se muoio non avrai più neppure la pensione” gli diceva, e lui che se la accudiva con gli occhi non badava alle sue parole, voleva portarsela via prima possibile. “Alla fine non si sta così male, basta suonare e vengono, anzi dovremmo lasciare qualcosa a Claudia, ma si, quella che fa il turno di mattina, è così gentile. Ah, Angelina se la sono portata a casa, c’è poco da fare”. Il figlio sentendo quelle parole era quasi orgoglioso di sua madre, pensava che nonostante avesse visto quell’Angelina quasi morirle a pochi passi, non aveva
provato paura di quella sorte così vicina. L’intervento era andato bene e Montini era soddisfatto come se Tina fosse stata promossa, “E’ il mio intervento riuscito meglio” le diceva, in realtà lo diceva sempre in quelle corsie d’ospedale dalle luci sempre accese, con il passo regolare delle ruote dei carrelli. “Comincerà la prossima settimana, le inietteremo un po’ di latte così non ci sarà più nessun problema”.
Tina era tornata a casa, come sempre sull’uscio a guardare come un custode quel suo palazzo rimasto temporaneamente incustodito. La settimana che doveva tornare era quasi lieta, “è sempre bello vedere la persona che ti ha fatto tanto bene”. E quando appesero quella sacca bianca come il latte, lei la guardava felice sorridendo Montini che usciva dalla stanza. Sull’armadietto fissava la sua bottiglia d’acqua e ricordava la sete di Angelina, l’armadietto della stanza precedente con tutti i tubetti di marmellata raccolti come un tesoro e portati a casa, convinta che la marmellata dell’ospedale fosse migliore di quella che faceva in casa. Avvampò, arse come le fratte di un forno quel giorno che Angelina morì e andò a prendere il posto del marito di Tina al camposanto. Lei se ne uscì dall’ospedale e tornò dalla città. L’aspettava suo marito.
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