L’ultima ora del prof

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07 Settembre 2010, 06:57

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C’erano una volta i professori. Chi scrive ha vissuto a lungo accanto a uno di loro, riuscendo perciò a sviluppare una discreta osservazione scientifica, nonostante il grado di parentela stretta. Era un uomo di questo e dell’altro mondo. Amava inspiegabilmente l’Ermengarda di Manzoni e la perifrastica passiva. Ma aveva i piedi sulla terra, saldamente poggiati nel posto giusto. Sapeva fare la spesa. Sapeva rubare tessere di riflessione e bellezza dal mosaico del suo cielo privato e letterario per riportarle al suolo, senza perdere un etto di magia. Orlando Furioso, spiegato da lui, era come il Paolo Rossi della canzone di Venditti. Era un ragazzo come noi.

I professori avevano pipe e occhiali in pace col tempo e con lo spazio. Avevano libri da sfogliare e dentro cui rintanarsi, non per sempre. Ne uscivano un po’ fragili e un po’ vittoriosi. I più bravi comunicavano un pizzico della propria debolezza. Saltavano Monti e spiegavano “I fiori del male di Baudelaire”. I più bravi riuscivano a spingerti tra le braccia dei lirici greci. Amare Leopardi è una roba da tutti. E ce n’era uno che adorava la poetessa Saffo. Si rischiarava in volto se leggeva un suo frammento, una virgola, un mezzo punto.

I professori di una volta erano liberi. Sicuri nel pur magro stipendio e capaci di fantasia. Alcuni erano geniali, eppure possedevano l’umiltà necessaria per studiare la lezione il giorno prima della spiegazione alla classe.
C’erano una volta, non ci sono più. I “docenti” contemporanei non sono professori, a parte sparute isole felici. Sono zattere naufraghe della scuola. Ce ne sono di bravissimi e portentosi. Eppure, la maggioranza – lo racconta la comune esperienza – è svogliata, incolta e incapace di trasmettere passione, non soltanto le  nozioni dell’abecedario. Questa generazione di più generazioni di insegnanti è la principale responsabile del crollo della scuola, della disistima che circonda banchi e lavagne, del disprezzo nei confronti dell’istruzione pubblica.
Colpa dell’ignavia, dell’incapacità politica, in senso siderale,  e organizzativa. La Gelmini è venuta subito dopo come uno strano scherzo del fato. Come una nemesi.

Certo, non è piacevole sentire un ministro della Repubblica che dice, più o meno ai precari: sono affari vostri. E la politica, Signora Ministro? Non è compito della politica la trasformazione del trauma in opportunità, affinché non siano troppi i caduti sul campo delle magnifiche sorti progressive? Perché sa – Signora Ministro – a far politica con la calcolatrice: questo lo taglio, questo lo butto, siamo capaci tutti. Non le hanno detto che la missione del governo non è mai il mestiere del macellaio? La protesta cruenta, pure siciliana, è la conseguenza della bassa macelleria ministeriale.

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La scuola pubblica sconta piaghe che arrivano da lontano. I prof si sono seduti da anni. Non hanno curato gli approfondimenti. Non si sono misurati con la conoscenza e con l’amore. Vietcong rintanati in un guscio di noce. Non si sono preoccupati delle stelle comete nel cielo, segno di mutamento. Non hanno imparato a volere bene alla scuola, in molte occasioni, né ai loro alunni. Troppe cartomanti della poesia. Troppi facchini della matematica. Hanno ridotto le rivendicazioni di categoria a mera convenienza personale e finanziaria, niente dicendo sull’istruzione nel suo insieme, mai diventando una compiuta e consapevole collettività.

Dunque, adesso che volete cari prof, colti nello stupore della campanella finale? La testa nel cappio l’avete messa voi, quando avete rinunciato alla magnificenza del ruolo, quando avete perso fiducia nel cammino della cultura, quando non avete studiato abbastanza.
Infatti, pure se insegnare letteratura, poco sapete di Baudelaire e nulla di Robert Frost. Nulla sapete di Frost che scrisse: “Bello è il bosco, scuro e avvolgente. Ma io ho promesse da mantenere. Miglia da fare prima di dormire, miglia da fare prima di dormire”.

Cari prof, quante ore ci avete rubato con la noia e con la stanchezza. Quante mattine avete smarrito inutilmente, spiegando Monti e tralasciando le poesie di Giorgio  Caproni, il più grande di tutti. L’avremmo scoperto da soli più tardi e ci saremmo chiesti sbigottiti: ma noi, a scuola, che ci siamo andati a fare?
La galoppante mancanza di significato della cattedra e del suo regno  è anche figlia della vendetta del trascurato Caproni. Ora, come disse un tale che poco sapeva di banchi e molto di uomini: la ricreazione è finita.

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07 Settembre 2010, 06:57

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