L’ultimo saluto a Norman: | “Amico, hai voluto così”

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16 Settembre 2010, 17:48

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Nel posto di Norman, hanno messo un fiore. Il cielo sembra vicino, attraverso l’unica finestra aperta del settimo piano di Lettere. Laggiù c’è una terrazza di mattonelle lontane. C’è un bigliettino sul vetro.
Tutto sarà dimenticato, perché le lacrime non scorrono per sempre. Non adesso, però. Sette piani più in basso i ragazzi preparano il cordoglio – la manifestazione in memoria di musica e pensieri in facoltà – e si raccontano l’amara vicenda. E’ la storia di un corpo sgretolato sulle mattonelle. E’ la storia di Norman Zarcone, 27 anni, dottorando all’Università e bagnino per raggranellare un salario. E’ la cronaca di un suicidio, di un volo estremo. Claudio. che del ragazzo era il padre, ha chiari movente e assassini. Lui lo chiama omicidio, “Omicidio di Stato”. L’ha detto in una intervista, l’ha ripetuto in tutte le salse. E’ stata la facoltà ad ammazzare Norman, con la sua mancanza di sbocchi dopo una fatica bestia, con le sue promesse non mantenute.

I ragazzi, gli studenti, sono qui, nell’atrio. Indossano magliette dell’Inter perché Norman era interista. Comunicano con gli occhi e con gli abbracci. Si toccano. Sfamano l’oscurità con la stretta delle mani e dei corpi che sono rimasti felici e vivi. E c’è come un’ombra nella consapevolezza della sopravvivenza.  Generazione complicata e corsara. Ardimentosa e sfortunata. Non tutta uguale. Sparpagliata su due incommensurabili piani inclinati. C’è una facilità presunta delle cose, una narrazione del mondo che lo rende semplice e azzurro. C’è un muro su cui sbattere la faccia, quando finisce la strada delle illusioni.
A Lettere si prepara la scenografia del lutto. Ci sono telecamere e cronisti.  Qualche politico concede un’intervista, ma che c’entra? Non c’è dignità, non c’è decoro in questo improvviso sciamare di auto blu. I ragazzi sono sempre soli. Lasciateli soli. Sempre.

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Arriva Claudio, il padre, con l’anima schiantata come il viso. E’ un collega giornalista conosciuto. E’ diverso. Capelli bianchi in più. Schiena ricurva. I suoi occhi non ci sono più. C’è l’inferno. Il fuoco grande dell’ultimo girone della disperazione, quello dei genitori che perdono un figlio, brucia nella voce di Claudio Zarcone. Urla disconnesse con poche parole annegate in mezzo. “Assassini, baroni, mafiosi”. Le telecamere annusano il dolore. Gli corrono incontro. Manderanno in onda lo spettacolo di un papà distrutto nei tg della sera. E i giornali racconteranno delle foto di Norman, delle canzoni di Norman, della chitarra di Norman, della sua ragazza e di sua madre. Lo seppelliranno sotto uno strato di commiserazione. Sotto l’intitolazione dell’aula promessa del rettore. Claudio urla. Contro i professori che non ci sono. Contro i politici che ci sono e nulla hanno fatto. Tremendo è il suo strazio. Indicibile è la pena di un uomo che ha conosciuto le periferie del potere come portavoce di Fabio Granata. Quel potere di relazioni, raccomandazioni e buffetti sulle guance, quel potere che lui ora odia e denuncia, non ha mosso un dito per salvare suo figlio.

Ma chi avrebbe potuto salvare Norman Zarcone? Chi può salvare un corpo che si issa fino al settimo piano e guarda il cielo su e le mattonelle giù con un’idea che non si scrosta? Ci sono i fiori nel posto di Norman. Tutto sarà ricordato. C’è un bigliettino, un foglietto spiegazzato appiccicato al vetro. Qualcuno ha scritto: “Non faremo più niente insieme. Hai voluto così, amico. Non ti hanno ucciso. L’hai voluto tu”.

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16 Settembre 2010, 17:48

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