28 Gennaio 2015, 13:59
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Cantare e portare la croce. Recitare il pater noster del dolore. Trovare la foto del bambino morto, però quando era vivo. Raccogliere il pianto della madre, di ogni madre. Non avere paura del sangue che segna in profondità. Sapere che le scarpe vecchie, con le loro storie, sono le amiche più sincere. Sopportare le urla del capocronista: nella foto il bambino è venuto di profilo. Rientrare a casa – a notte alta – guardarsi allo specchio per intendere se sia sopravvissuta qualche ruga di umanità. Ecco gli appunti immaginari di un cronista di nera. Chiunque lo sia stato – solo per trenta secondi, solo perché non c’era nessun altro, solo perché il caporedattore, a un certo punto, gli ha rivolto uno sguardo di preoccupata commiserazione, avendo appurato che proprio non c’era nessun altro per andare a ‘vedere il cadavere – chiunque abbia attraversato la porta stretta del taccuino volante e della penna che non scrive, sa di cosa si parla.
La nera. Mestiere di pioggia da ricevere senza cappello. Lavorio di taccuini che disfano l’inchiostro nel momento meno adatto, per lavarsi in una risciacquatura di lacrime. Le lacrime di chi ha sofferto l’indicibile colano eternamente, in fotocopia. Eppure, a scrutarle, si coglie la differenza, il dettaglio che rende ogni lacrima unica, come i diamanti. E poi c’è il co-protagonista del sangue. L’assassino. Che sempre nei romanzi di formazione, a dispetto della realtà, viene scoperto a pagina duecento-e-qualche -cosa tra i cori da stadio, mentre Poirot si inchina in dissolvenza, salutando le signore col baciamano.
Di nera, di mestiere, di penne, taccuini e gettoni si è discusso ieri sera alla Mondadori, quando Salvo Sottile ha presentato ‘Cruel’ il suo romanzo. E c’erano i giornalisti che potevano chiacchierarne con cognizione. C’era Peppino Sottile, c’era Pietrangelo Buttafuoco, c’era Felice Cavallaro. C’era la descrizione di un percorso: dal mito ai fatti. La mitologia della cabina telefonica e del gettone, ausilio, insieme con le scarpe vecchie, di pezzi che non sarebbero mai stati letti in assenza dell’uno o dell’altro elemento. C’era il riverbero di antiche storie, di libri preziosi con l’odore dell’abito di Maigret e della provincia, il palcoscenico del male più gustoso.
C’era Massimo Bossetti e c’era Yara, nella chiacchierata. C’era il rumore dell’elicottero che si leva in volo, ronzando a Santa Croce Camerina, sulla casa di Davide Stival e di Veronica Panarello; elemento del neo-giornalismo televisivo che ha bisogno della trovata scenica. Cos’era quel fragore di pale se non un attrezzo da teatro, una segnaletica visibile per dire: stiamo arrestando la mamma di Loris, tra un attimo, in diretta per voi guardoni impenitenti dell’orrore?
Quel mondo e questo mondo. Ieri, la foto del bambino morto, da vivo, con un faccino serio nello scatto col grembiule della scuola elementare, tra il banco e la cartina geografica alle spalle. Ieri, la madre che si torce le mani e chiude la porta sul suo lutto. Oggi, lo screenshot di Facebook a mostrare vittime surreali e contente del loro stato, nel sorriso-lapide, pensato per un diverso finale. Oggi la casalinga che va in tv, esibendo i capelli rifatti, per mercanteggiare sul valore di una tragedia.
Ieri e oggi, lo stesso filo cucito tra i bottoni dell’abito. La nera e i cronisti che la servono: monatti che caricano il carro di corpi, per fare il lavoro sporco. Così cantano e portano la croce della crudeltà di tutti.
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28 Gennaio 2015, 13:59