L'inchino dei Santi ai boss | Concorso in processione mafiosa - Live Sicilia

L’inchino dei Santi ai boss | Concorso in processione mafiosa

L'ultimo esempio del rapporto distorto fra mafia e fede arriva da Paternò, nel Catanese. Per quanto odioso resta un tema strettamente religioso, che non presenta profili penali. Forse più che un in'inchiesta servirebbe qualche scoppola. Magari a favore di telecamera.

Il caso di Paternò
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PALERMO – L’ultimo esempio arriva da un paese nel Catanese. Un cereo in onore di Santa Barbara si ferma davanti alla casa del boss. I portatori si inchinano. Scandalo. 

È accaduto pochi giorni fa a Paternò dove c’erano pure le telecamere. Non solo quelle di qualche cittadino – se succede qualcosa di succulento stai certo che un telefonino lo avrà riperso, è il segno dei tempi -, ma anche quelle di carabinieri e poliziotti. Sanno già che ci sarà un boss, o presunto tale, a cui le confraternite mostreranno riverenza. A volte basterà appena il dondolio del fercolo per vedere il peccato mortale, senza considerare che magari il portatore avrà avuto un mancamento per la fatica. Altre volte, però, l’inchino è vero.

E allora il questore perde le staffe e vieta le manifestazioni religiose nei giorni a venire; il ministro dell’interno si complimenta con chi ha smascherato “gli atti incommentabili”, persino il presidente dell’antimafia – è accaduto anche questo – ringrazia il solerte carabiniere che ha filmato tutto.

E dunque? Qualche tempo fa la procura antimafia di Reggio Calabria aprì un’inchiesta sull’inchino della Madonna di Oppido Mamertina. Il punto è capire quali reati siano stati commessi. L’ipotesi di associazione mafiosa è troppo, servirebbe almeno un santino bruciato come prevede il rituale di affiliazione del nuovo uomo d’onore.

Il concorso esterno in processione mafiosa? Difficile dimostrare quale sia l’apporto di Cosa nostra nell’organizzazione della processione. In astratto, ma molto in astratto, si potrebbe scoprire che il portantino sia stato obbligato dal mammasantissima di turno. Il punto è che per quanto odiosa e offensiva sia la pratica dell’inchino la faccenda resta confinata alla materia religiosa.

Insomma, sono peccati di cui potrebbe – e forse dovrebbe – occuparsi il prete. I reati, quelli che si giudicano in Tribunale, sono altra cosa. Il tema del rapporto distorto fra il mafioso e la fede è serissimo, ma la cronaca giudiziaria non c’entra. Come risolvere la faccenda? Papa Francesco, qualche tempo fa, si è spinto fino alla scomunica quando disse, in terra di Calabria, che la ‘ndrangheta è adorazione del male. Non è bastato. Gli inchini, proseguiti con costanza, ci impongono l’amara riflessione sul livello delle persone alle quale affidiamo i nostri Santi e le nostre Madonne. Molti preti, poveri preti, di fronte alle immagini di processioni e funerali in stile Padrino, si sono difesi con un “non me ne sono accorto” oppure con un “non è facile accorgersene”.

Non ce ne vogliano, prima dell’intervento delle forze dell’ordine sarebbe più utile qualche scoppola, proprio come una volta si faceva con i ragazzini all’oratorio. Il torpore, più che la paura, impedisce di guardare dentro le confraternite religiose che organizzano le processioni. Molti indossano le divise, reggono i ceri, raccolgono soldi per le luminarie, cadenzano le processioni, ma la loro probabilmente non è fede, ma un semplice rito pagano. Ci consola la certezza che a inchinarsi non è la Madonna, ma una sua rappresentazione, tutta umana.

E allora è agli uomini che bisogna guardare per evitare il prossimo inchino se è vero, come è vero, che l’inchino arriverà puntuale. Tanto puntuale che la telecamera aspetta solo di accendersi. Spesso tutti, o quasi, nel quartiere conoscono i nomi dei sospettati di mafiosità che bazzicano dentro le confraternite. Basterebbe predicare bene e razzolare meglio. Anche a costo, per una volta, che la vara resti in chiesa. Il popolo di Dio ne sarebbe contento. Come il questore.


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