Mafia, amore e morte a Palermo| “Il Signore ti ha perdonato”

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18 Luglio 2018, 06:05

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PALERMO – Lia Pipitone ha avuto giustizia. Non è andata così per il ragazzo che le era stato vicino. “Morto suicida”, si disse. Nel giorno della condanna di primo grado per gli assassini della giovane donna, le carte dell’ultima inchiesta su Cosa nostra palermitana svelano dei retroscena sulla morte di Simone Di Trapani.

Fine estate, 1983. Una giovane madre si trova all’interno di una sanitaria nella borgata palermitana dell’Arenella. Due malviventi entrano armi in pugno. Si fanno consegnare l’incasso. Esplodono cinque colpi di pistola. Lia Pipitone, 24 anni, colpita prima alle gambe e poi al torace, non ha scampo. Suo figlio Alessio, che di anni ne ha quattro, resta orfano. Lia è figlia di Antonino Pipitone, boss che conta nella mafia che conta. Quella che si è alleata con i corleonesi di Totò Riina e ha fatto e farà strage dei nemici.

Ammazzano la figlia di un boss e nulla accade. Il silenzio. Negli anni in cui si moriva per uno sguardo di troppo due rapinatori massacrano una Pipitone e vengono perdonati come se si fosse trattato della maldestra azione di due picciotti sprovveduti. Il boss se ne sta buono. Avrebbe addirittura avallato l’assassinio della figlia che l’aveva disonorato. Un ventennio dopo i pentiti spiegano che Lia dei Pipitone portava solo il cognome. Non era una di loro.

Fuga d’amore a diciotto anni, la voglia di andare via da Palermo, le poesie di Neruda, la musica di Guccini e, soprattutto, l’amicizia con un ragazzo. Nella borgata si fa presto a parlare di relazione extraconiugale. Diventa un marchio infamante per un padre che è anche e soprattutto un boss. L’onore va difeso. Bisogna lavare l’onta, anche a costo di farlo con il sangue del proprio sangue.

Nino Pipitone è morto da anni. Era stato assolto perché non sono furono trovati riscontri ai racconti dei pentiti. Non ha fatto in tempo a vedere la sorte toccata ora ai capimafia Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo, boss di Resuttana e dell’Acquasanta, condannati a trent’anni ciascuno di carcere. Sarebbero stati loro a ordinare la morte di Lia.

Da fondo Pipitone partirono gli squadroni della morte che uccisero Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Ninni Cassarà. A fondo Pipitone prepararono l’esplosivo che doveva ammazzare il giudice Giovanni Falcone all’Addaura. Non si fermavano davanti a nulla, neppure di fronte ad una giovane donna e madre, figlia di uno di loro. 

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Il merito della riapertura delle indagini che hanno portato alla condanna è di quel figlio nel frattempo diventato uomo, Alessio, che ha raccolto testimonianze e ricostruiti fatti. Lia ha avuto finalmente giustizia. Per Simone, il suo migliore amico, la faccenda è ancora più complicata. Il giorno dopo l’esecuzione di Lia, Simone Di Trapani precipitava dal quarto piano di un palazzo in piazza Cascino. Suicidio, si disse, leggendo il biglietto che aveva lasciato: “Mi uccido per amore”. Una messinscena dirà di recente un altro pentito, Angelo Fontana. L’ennesima per salvare la faccia di chi si riempiva la bocca pronunciando la parola onore e ammazzava i suoi stessi figli, simulando la maldestra azione di due rapinatori.

Due giorni fa su richiesta dei pubblici ministeri di Palermo sono state arrestate ventotto persone. Leggendo le carte dell’accusa si scopre che c’è un capitolo intitolato “gli omicidi di Rosalia Pipitone e di Simone Di Trapani”. Il pentito Angelo Fontana ha attribuito la responsabilità della morte del giovane a Vincenzo e Angelo Galatolo. Quest’ultimo è deceduto nel 1983, portandosi dietro, probabilmente, il rimorso per un delitto consumato con la ferocia tipica di Cosa nostra.

Almeno così emergerebbe dalle parole di Raffaele Favaloro e Giuseppe Perricone, due degli arrestati nel blitz del Nucleo speciale di polizia valutaria della finanza: “… la figlia dello zio Nino… minchia a quello lo buttarono dal balcone…”. Pecoraro era imparentato con Angelo Galatolo e riferisce quanto lui stesso vide poche ore dopo i due delitti: “… l’ultima volta che l’ho visto… settembre ottantatré… è entrato mio padre nella stanzetta… nella stanza sua di via Montepellegrino, Raffaè… veramè, mi viene la pelle d’oca… che potevano essere le nove e ne è uscito a mezzanotte… “.

Angelo Galatolo si sarebbe confessato, come raccontò allora il Giornale di Sicilia, con un sacerdote in punto di morte, nell’ottobre 1983, dopo essere stato colpito durante un conflitto a fuoco con la polizia. I due interlocutori ricordano l’episodio: “… infatti che gli ha detto al parrino… dice, lei pensa che mi perdonerà il Signore per tutto il male che ho fatto?… dice il Signore ti ha già perdonato… onestamente a quello (Simone Di Trapani, ndr) gli tuppuliaro per il gas”. Si spacciarono per impiegati dell’azienda del gas. Era una scusa per entrare in casa del giovane. Ancora Pecoraro: “… si è lavato la coscienza di questa merdata… perché gli altri (riferendosi ad altri omicidi, ndr) per lui non furono merdate”.

Favaloro conclude il ragionamento: “… li tolse tutti di mezzo… si andò a vendicare”. Angelo Galatolo, killer della potente famiglia mafiosa, cercò il perdono di Dio tra le braccia del prete della chiesa del Don Orione che sentì i colpi e uscì in strada, in via ammiraglio Rizzo, con i paramenti sacri addosso. Angelo Galatolo era un killer di mafia. Simone Di Trapani, una vittima innocente che non ha avuto ancora giustizia.

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18 Luglio 2018, 06:05

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