Mafia di Corleone, tutti in cella| Liberi due proprietari terrieri

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27 Ottobre 2016, 05:25

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PALERMO – L’inchiesta sulla mafia del Corleonese supera la prima valutazione di merito. Il Tribunale del Riesame conferma l’arresto per tutti e dodici gli indagati. A cadere sono solo le limitazioni imposte a Gaspare e Pietro Gebbia, padre e figlio, proprietari terrieri, a cui era stata applicata la libertà vigilata.

Sarebbe stati loro a commissionare una spedizione punitiva nei confronti di un parente, ma il progetto sarebbe saltato grazie all’intervento dei carabinieri, nel settembre scorso. Da qui la misura cautelare meno afflittiva che ora è stata annullata. Non si conoscono le motivazione con cui il Riesame ha accolto la richiesta degli avvocati Antonino Di Lorenzo e Giuseppe Di Peri, ma potrebbe esseri trattato di un vizio procedurale. L’applicazione della libertà vigilata, secondo i legali, doveva passare dalla valutazione di un altro giudice.

Per il resto il Riesame ha dato ragione all’impostazione dei sostituti procuratori Sergio Demontis, Caterina Malagoli, Gaspare Spedale e dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci. Sarebbe stato Carmelo Gariffo, nipote di Bernardo Provenzano, uscito dal carcere nel 2014, a tentare di serrare i ranghi del clan. Avrebbe potuto contare su un gruppo di fedelissimi: l’allevatore Bernardo Saporito, che gli faceva da autista; l’operaio forestale stagionale Vincenzo Coscino, il capo cantoniere Francesco Scianni, il figlio del capomafia Rosario Lo Bue, Leoluca, e Pietro Vaccaro, questi ultimi due allevatori. Avvano ricevuto un’ordinanza in carcere per estorsione Antonino Di Marco, Vincenzo Pellitteri e Pietro Masaracchia, boss già arrestati qualche mese fa. In cella pure gli omonimi Francesco Geraci, nipote e figlio di un capomafia deceduto.

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Nell’inchiesta saltarono fuori i nomi di due incensurati Gaspare e Pietro Gebbia, di Palazzo Adriano. “Il compare del tabacchino” temeva di dovere rinunciare all’eredità. E così avrebbe deciso di assoldare qualcuno per una spedizione contro il parente scomodo. “Tremila euro”, tanto valeva la vita di un uomo, perché erano pronti pure ad ammazzarlo. I militari del Gruppo di Monreale e del Nucleo investigativo avevano messo sotto intercettazione Pellitteri e Masaracchia, considerato il capomafia di Paalzzo Adriano, che illustrava a Pellitteri i motivi dell’incarico ricevuto da “tuo compare… questo qua del tabacchino…”.

Era una faccenda personale che il “compare” non poteva risolvere da solo, visto che non c’era neppure un testamento: “…gli entrano tutti e due i fratelli e quello ci sta mettendo il naso che atto non ce n’è… che ci sta mettendo il naso e siccome scritto non c’è niente, nelle terre e nelle cose…” Masaracchia aveva avvisato il “committente” dei rischi a cui andava incontro: “…gli ho detto senti qua… per dare le furcunate si va e non si sa quello che può succedere, può essere che questo muore, può essere che succede…”.

Meglio affidarsi a dei professionisti. Il prezzo era bassissimo: “… ed allora… ci vuole qualcuno che si assume le responsabilità ed allora… tu pagando dici… vuoi fatto questo discorso… esci tremila euro e si è chiusa qua…”. L’omicidio, che doveva apparire come l’epilogo di una storia di femmine, doveva avvenire nelle campagne di Contessa Entellina: “… là al cancello c’è una muntata (saluta, ndr) così, no? … però è a due mezzine (ante, ndr), che si può chiudere a mano… devo andare a vedere là a questo abbeveratoio… no io invece devo andare a guardare questo cancello, queste cose, mi devo fermare a questo abbeveratoi, inquadrare bene…”. Nel settembre del 2014 Masaracchia fu arrestato e il piano di morte stoppato sul nascere.

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27 Ottobre 2016, 05:25

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