09 Ottobre 2013, 06:37
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CALTAGIRONE – Mafia e grandi appalti. L’eco di un binomio che oggi rimbomba tra il Veneto e la Sicilia e che riguarda la realizzazione di una delle opere viarie più attese dell’isola: la “variante di Caltagirone”. Nel cantiere ci sarebbero le mani dello storico Clan La Rocca: secondo le indagini dei Carabinieri la famiglia mafiosa sarebbe riuscita a operare in modo che l’esecuzione dei lavori della Strada Statale Libertinia fosse affidata in subappalto a ditte di cui aveva il controllo diretto. Tutto questo avveniva – è emerso dall’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania diretta da Giovanni Salvi – attraverso un preciso modus operanti che potesse eludere la normativa antimafia.
Uno stratagemma creato ad “arte” che attraverso il frazionamento degli appalti consentiva al Clan di Caltagirone di intascare ingenti profitti frutto del finanziamento pubblico. In questo caso si parla di oltre un milione di euro, cioè una percentuale misurabile dall’1 al 3% del valore totale dell’appalto che per la SS 683 Licodia Eubea-Libertinia ammonta a 111.819.091 euro. Somma per cui l’Associazione Temporanea di Imprese (composta da F.I.P. Industriale di Padova; L&C Lavori e costruzioni di Alcamo (TP) e Tecnolavori S.r.l. di Palermo) si era aggiudicata la costruzione della cosiddetta variante di Caltagirone per un tracciato di 8,7 chilometri.
L’indagine scatta per un fatto “strano e particolare”: nel cantiere aveva libero accesso Francesco Gioacchino La Rocca, figlio dello storico capomafia Ciccio. Entrava e usciva senza alcun tipo di controllo, quando invece ogni persona esterna alla ditta doveva esibire almeno un documento di riconoscimento. I Carabinieri fiutano qualcosa di sospetto e nel giugno del 2011 avviano un’attività di intelligence, soprattutto attraverso intercettazioni, e scoprono che l’A.T.I., per la realizzazione completa dei lavori in realtà si appoggerebbe alla Edilbeta Costruzioni, ditta dalla quale aveva acquistato il terreno per il campo base e che avrebbe rapporti personali e commerciali proprio con La Rocca Junior.
Quest’attività investigativa è sfociata nell’arresto di cinque persone e nel sequestro preventivo di due società, la “To Revive s.r.l.” e “Edilbeta Costruzioni. In particolare i Carabinieri, all’alba di oggi, hanno eseguito un provvedimento restrittivo emesso dal Gip di Catania su richiesta della Dda etnea nei confronti di cinque persone accusate a vario titolo di associazione di tipo mafioso, intestazione fittizia di beni e concorso esterno in associazione mafiosa.
In manette anche il “colletto bianco” colluso con la storica famiglia mafiosa calatina. Per gli investigatori Mauro Scaramuzza, 55 anni, amministratore delegato della Fip spa di Padova, impresa di rilevanza internazionale, aggiudicataria dell’appalto (insieme alle società L&C unite in associazione temporanea di imprese) era pienamente consapevole del controllo del Clan nel cantiere, ed era anche perfettamente a conoscenza degli importanti introiti che questo affare stava fruttando all’organizzazione criminale. Tra i destinatari del provvedimento anche Francesco Gioacchino La Rocca, 42enne figlio del capomafia Francesco detto “Ciccio”, attualmente detenuto. Arrestati anche i fratelli Giampietro Triolo e Gaetano Triolo, rispettivamente di 53 e 42 anni e Achille Soffiato, 49 anni, responsabile del cantiere.
E’ emerso che la Fip, per suo conto i due arrestati Soffiato e Scaramuzza, avrebbe favorito due ditte controllate dalla storica famiglia calatina, la “To Revive” e la “Edilbeta Costruzioni”, affidando loro dei lavori in subappalto stipulando contratti di spesa molto elevati. Per dare delle cifre: da elementi investigativi emersi dalle varie “pezze d’appoggio” è emerso che su circa 36 milioni di euro subappaltati, un milione di questi sono arrivate alla To Revive, ditta gestita direttamente da La Rocca anche se aveva messo come prestanome il cognato Gianpietro Triolo, e il fratello di quest’ultimo Gaetano.
Coinvolti nell’inchiesta anche tre funzionari dell’Anas, che sono stati denunciati. Al fine di eludere la normativa antimafia, Soffiato e Scaramuzza, con la complicità degli indagati, ed in particolare di un impiegato dell’ufficio contratti, del direttore dei lavori e del responsabile unico del procedimento nonché direttore del compartimento di Catania, avrebbero frazionato i contratti in modo che ciascuno di essi non superasse la soglia di 154.000 euro, limite entro il quale non è obbligatoria la certificazione antimafia.
Oltre gli stratagemmi i tre impiegati fungevano da intermediari: in maniera pianificata ritardavano, anche oltre 8 mesi, la trasmissione alla prefettura della richiesta della certificazione antimafia per un subappalto per la To Revive. E’ da evidenziarei che la ditta aveva già percepito regolari pagamenti e per questo la Procura ha deciso di presentare le richiesta di misura cautelare con urgenza per bloccare un processo di accumulo di ricchezza illegale da parte del Clan. L’inchiesta infatti non si ferma qui, considerando anche che la Dda aveva presentato al Gip 10 posizioni da giudicare, e di queste ne sono state accolte solo cinque.
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09 Ottobre 2013, 06:37