10 Marzo 2014, 06:05
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CATANIA – E’ uno dei testi chiave del processo Revenge 3. Gaetano D’Aquino, nell’aula bunker di Bicocca, ha risposto per oltre due ore alle domande dei Pm Pasquale Pacifico e Lina Trovato. Il collaboratore di giustizia ha ripercorso, nella prima parte dell’interrogatorio, le fasi che portarono all’omicidio di Sebastiano Fichera, delitto che vede imputato con il ruolo di mandante il boss Biagio Sciuto. Un lungo racconto, quello di D’Aquino, che getta nuove ombre sul legame tra mafia e politica, su quella connivenza di sfruttamento della criminalità organizzata per accapparare il maggior numero di voti.
E’ il 2008, mancavano pochi mesi all’assassinio di Sebastiano Fichera. Si sta consumanto la campagna elettorali delle regionali che decreteranno la vittoria di Raffaele Lombardo, condannato in primo grado per concorso esterno, a governatore siciliano. D’Aquino spiega alla Corte che Biagio Sciuto aveva creato un cerchio di isolamento intorno a Sebastiano Fichera per una serie di iniziative che erano state mal digerite dal boss: tra cui i suoi affari con il traffico di cocaina e certi introiti con le elezioni.
“L’isolamento di Sebastiano Fichera parte – racconta D’Aquino – quando si attivò a Catania per le elezioni del 2008, mi sembra che erano le provinciali ed anche le regionali, no le regionali erano. Fichera ebbe molti soldi da un politico, non so se posso fare nomi?”. Il pm risponde: “Non ci interessa in questo processo”. Il collaboratore incalzato dalla Corte continua: “Ebbe molti soldi da un politico Sebastiano Fichera, e quindi quando Sciuto venne a sapere che ebbe centoventi mila euro da questo politico andò su tutte le furie, perché Fichera non diede nemmeno un euro a Sciuto”.
Sebastiano Fichera sarà ucciso a Catania in via Cairoli il 26 agosto 2008. Il mandante sarebbe stato proprio l’imputato Biagio Sciuto con la complicità di Giacomo Spalletta. Quest’ultimo cadrà in un agguato preparato dai Cappello Carateddi proprio per vendicare Fichera il 14 ottobre 2008. La ricostruzione emerge anche da alcune cimici piazzate dalla Squadra Mobile sulla lapide dove ogni giorno piangeva la vedova Agata Aurichella, che è stata lungamente interrogata dai pm. Un omicidio che divise il clan, tanto che per Ianu Fichera fu realizzato un murales in suo ricordo.
Alla sbarra, oltre al padrino Biagio Sciuto, anche quattro collaboratori di giustizia, Gaetano D’Aquino, Gaetano Musumeci, Natale Cavallaro e Salvatore Fiorentino, rei confessi di diversi delitti consumati tra il 2001 e il 2009.
Uno degli omicidi al centro del processo, che si celebra con il rito ordinario, è quello di Raimondo Maugeri; per cui è imputato Girolamo Ragonese. D’Aquino in un primo momento doveva partecipare al delitto consumatosi il 3 luglio del 2009. Il collaboratore parla di un incontro convocato direttamente dalle due menti criminali dei Carateddi, Orazio Privitera e Sebastiano Lo Giudice. “Mi dissero – racconta in aula – che mi dovevano fare un regalo. Il regalo era che si doveva uccidere Raimondo Maugeri e io dovevo partecipare personalmente, perché all’omicidio di mio padre, chi sparò materialmente fu proprio lui”. Il piano poi – secondo quanto asserisce il collaboratore – cambiò. Ianu Carateddu scelse il novo gruppo di fuoco che sarebbe stato composto da Gaetano Musumeci, anche lui collaboratore di giustizia, e Girolamo Ragonese, detto Ginu U Biondu. Maugeri sarebbe stato solo il primo bersaglio all’interno del Clan Santapaola. Era iniziata – secondo la Dda di Catania – una nuova guerra di mafia.
Questo processo, che nel rito abbreviato si è concluso con 5 ergastoli e oltre due secoli di carcere per gli imputati, focalizza l’attenzione su una pagina sanguinaria della storia della mafia catanese, con protagonisti i componenti del braccio armato dei Carateddi, capeggiato da Sebastiano Lo Giudice. Ianu U Carateddu – secondo D’Aquino – è un personaggio senza scrupoli: “Perché per Lo Giudice – ha dichiarato in aula – si doveva ammazzare tutta Catania, non doveva vivere nessuno mai”.
Omicidi, regolamenti di conti e pulizia all’interno del clan, ma anche delitti per futili motivi. Eravamo alla vigilia di una faida: le indagini, confermate poi dai collaboratori di giustizia, evidenziano come i Cappello avessero già stabilito dei bersagli “eccellenti”: le teste da fare “esplodere” erano quelle dei boss di Cosa Nostra. Perchè Catania doveva diventare il regno dei “Cappello”. Lo Giudice voleva “sterminare la famiglia Santapaola”. “Le sue intenzioni – racconta D’Aquino – erano quelle di eliminare Enzo Aiello. Anche Francesco Crisafulli era un chiodo fisso e – conclude il collaboratore di giustizia – Santo La Causa”.
LA SECONDA PUNTATA SARA’ DEDICATA AL CONTROESAME DELLA DIFESA
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10 Marzo 2014, 06:05