29 Novembre 2014, 06:15
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PALERMO – “Gli sparai un primo colpo di fucile, ad una distanza di qualche metro. Credo di avere colpito la parte superiore del corpo e la testa. Poi, ho sparato un secondo colpo contro l’uomo, già a terra”. Salvatore Cintura aveva 36 anni ed era padre di due figli. Osò rubare in un cantiere di Cosa nostra e il Tribunale di Cosa nostra lo condannò a morte. La sentenza venne eseguita il 23 maggio del 1981 da Gioacchino La Barbera che sarebbe diventato collaboratore di giustizia. Prima, però, nel 1992, ebbe il tempo di partecipare alla strage di Capaci. Anche allora era il 23 maggio.
A distanza di 33 anni dal delitto sotto processo finisce Giuseppe Marfia, 75 anni, capomafia di Altofonte, da tempo in cella. Sarebbe stato lui il mandante dell’omicidio commesso da La Barbera che viene giudicato separatamente. Il racconto di La Barbera è agghiacciante. Parte dalle “indagini” commissionate dal boss: “Sono stato combinato in Cosa Nostra agli inizi del 1981. Prima fui incaricato da Giuseppe Marfia di controllare chi fosse l’autore di ripetuti furti di materiale ferroso nel cantiere dell’impresa Iaces, che stava realizzando un lotto della strada Palermo-Sciacca in contrada Salamone di Altofonte”.
Fu il primo incarico di rilievo assegnato a La Barbera: “Allora avevo 21 anni circa, mi ero reso conto che Marfia aveva un ruolo nell’ambiente criminale di Altofonte, ed era di fatto guardiano di quel cantiere, pur se impiegato alle poste a Palermo”. Un’occasione importante per mettersi in mostra quando era poco più che un ragazzo: “Ero stato, infatti, assegnato al reparto di polizia militare presso la caserma Scianna di corso Calatafimi a Palermo, e quindi l’unico impegno che avevo quando non ero di servizio era di essere presente alle otto del mattino, e fino alle ore quattordici. Avevo naturalmente vari permessi per il sabato e la domenica, e ricordo appunto che quest’omicidio ebbe luogo nella tarda mattinata di un giorno di sabato”.
La vittima designata si era macchiata di una colpa grave: “Marfia mi disse che si erano verificati diversi furti, che finivano col recare all’azienda un certo danno, perché veniva rubato materiale che non era ferro vecchio, ma costituito da pezzi da usare in cantiere. Marfia mi dette quindi un fucile a canne mozze, e mi disse di vedere chi era il ladro, e di sparargli così da togliersi il pensiero”.
E scattò il piano di morte: “A tal fine io, per tre o quattro giornate di sabato successive, mi appostai nel cantiere della Iaces, vicino alla baracca dove era custodito il materiale. Finalmente, uno di questi sabati, vidi arrivare un uomo piuttosto giovane, di circa 30-35 anni, con una moto Ape, dato che aveva la targa. Vidi l’uomo rompere la toppa della baracca, e cominciare a cercare il materiale da portar via. Io ero appostato dietro un muro poco distante, e situato ad un livello più alto della baracca. Naturalmente, l’uomo stava in guardia, e ad un certo punto mi notò, anche perché io a mia volta lo chiamai e gli chiesi cosa stesse facendo. L’uomo si avvicinò verso di me, e ricordo che c’era una scala mobile appoggiata al muro, che stava per usare per arrivare fino a me, invece di scappare come invece io pensavo”.
La Barbera entrò in azione: “A quel punto gli sparai un primo colpo di fucile, ad una distanza di qualche metro. Credo di avere colpito la parte superiore del corpo e la testa, anche perché io sparavo dall’alto verso il basso. Poi sono sceso a mia volta usando la scala di cui ho detto, ed ho sparato un secondo colpo contro l’uomo, già a terra. Dopo di ciò, coprii il cadavere con un pannello in ferro ed andai a cercare Marfia”.
A distanza di 33 anni, il giudice per l’udienza preliminare Giovanni Francolini ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio presentata dal pubblico ministero Amelia Luise. Il processo inizierà il 15 gennaio prossimo.
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