13 Gennaio 2015, 16:35
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PALERMO – Fu la mattanza di Cosa nostra. Gli anni sanguinosi della guerra fra palermitani e corleonesi. L’avanzata di Totò Riina sulla città era inarrestabile. Gaetano Grado provò a resistergli. Il primo è stato condannato all’ergastolo dal giudice per l’udienza preliminare Giovanni Francolini per gli omicidi di Antonino Tarantino e Alfredo Dispenza. Così come aveva chiesto il pubblico ministero Dario Scaletta. Il secondo se l’è cavata con la prescrizione che spazza via l’accusa di avere ammazzato dodici persone. Essendo un collaboratore di giustizia, Grado ha usufruito di un attenuante speciale.
Fu lui a ricostruire la lunga scia di sangue. L’ex padrino di Santa Maria del Gesù, braccio destro di Stefano Bontate, ha raccontato i suoi anni da killer. Bontate aveva sottovalutato Riina (“Ma dove deve arrivare stu peri incritatu”), che lo avrebbe ammazzato nell’81. “Questo cafone quando è sceso da Corleone me l’hanno dato in mano a me – ricordava Grado – che portava ancora gli scarponi dei pecorai con i chiodi e l’ho tenuto 5 anni latitante io. Ma sono bestie, animali tra loro, anche fra loro familiari”.
All’inizio Grado e Riina erano in buoni rapporti. I loro nomi sono legati da alcuni omicidi. Erano anni in cui si moriva persino per aver fatto chiasso al ristorante. “Ero seduto al ristorante Spanò… – sono le parole di Grado – … e c’era un tavolo con una decina di persone tra cui questo Paolo Morana, Dispensa (Alfredo, ndr)… e cominciano a litigare fra di loro. Uno dei camerieri mi fa: signor Tonino per favore glielo può dire che si comportano da persone civili?”. Drago provò a fare da paciere: “Mi alzo dal tavolo e vado da questi qui. Si alzano il Dispensa, si alza questo Franco Gnoffo, mi vengono a baciare, mi fanno gli auguri che ero uscito di carcere. Gli dico: non fare questioni qui dentro. Dispensa dice: stia tranquillo, non ci sono problemi”.
I giovani hanno spesso la testa calda: “C’era questo ragazzino Paolo Morana, che aveva 19-20 anni, che si sbottona la giacca e dice una parolaccia che non posso dire… mi fa veder che aveva due revolver addosso… gli dico: senti ragazzino questi revolver che c’hai uno te lo metti in bocca e l’altro te lo ficchi nel di dietro. Lo lascio in asso e me ne vado… ora io non che avevo più testa al mangiare… mi alzo e telefono da Pietro Vernengo e gli dico: senti, piglia qualcuno e venite subito qui, venite preparati. Si butta sulla macchina e viene da solo, tutto agitato. Gli dico Pietro dobbiamo vedere chi sunnu questi curnuti”.
Iniziò la caccia: “Me ne vado in una mia proprietà a Santa Maria di Gesù, c’era pure Riina che aspettava me. Dispensa si affaccia e mi dice: sono venuto per chiedere scusa… entriamo dentro la cava e c’erano Stefano Giaconia, Totò Riina, Salvatore Micalizzi, Saro Riccobono, Franco Mafara, Antonino La Rosa. Rivolgendomi a Riina, gli dico: Alfredo questo è il tuo medico… Riccobono piglia la corda e gliela mette al collo… dopo che ha finito di parlare si ci è messa una corda al collo e sono stati strangolati. E sono stati seppelliti dove c’è la chiesa di San Ciro Maredolce dove stavano facendo l’autostrada”.
Poi, Riina divenne il nemico numero uno. Eliminò via via tutti i capimafia palermitani, compresi Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. I corleonesi ebbero la meglio. Iniziò la stagione della fuga. I perdenti furono costretti a scappare per scampare alla ferocia corleonese. “Me ne vado in Spagna a Benidorm, 70 chilometri dopo Alicante”, raccontò Grado. Ed è lì che progettò la vendetta: “Io scendevo per dire dalla Spagna… ci usavo la tattica io, ai corleonesi e ai loro alleati, ci scendevo giù, gli sparavo due colpi ad uno e facevo credere che ero giù, e loro impazzivano, si chiudevano tutti dentro e me ne andavo in Spagna…”.
Uno dei primi a cadere, il 7 gennaio 1982, fu Michele Graviano, il padre di Filippo e Giuseppe, i boss di Brancaccio. Ecco il racconto di Grado: “Lui usciva da casa… aveva una gamba, mezza gamba di legno, nello scendere questa scala di ferro faceva rumore. Io sono in un caseggiato vecchio in questo palazzetto, appostato… appena sento il rumore esco e gli sparo due fucilate.
Poi, tocco a Salvatore Messicati Vitale. “… io gli faccio l’appostamento nella strada di Mongerbino, io e Agostino D’Agati con un fucile da caccia… gli tiro la prima fucilata, lo centro in pieno petto… lui fa a sangue caldo una cinquantina di metri. Subito scappo e mi metto nella strada… blocco tutte le macchine col fucile… mi avvicino dal Messicati e gli tiro ancora due fucilate….”.
L’omicidio di Francesco Baiamonte avvenne nel marzo 1989. A scatenare la furia omicida di Drago fu l’assassinio di Francesco Fricano. “Un carissimo amico mio, era un uomo di pace”, così ne parlava il pentito che, non riuscendo a sapere chi fosse stato, “allora decido di sparare a chi era rappresentante di Bagheria, a questo Baiamonte…
Dopo Baimonte, toccò ad Antonino Aspetti. Venne assassinato a Casteldaccia: “… dopo la morte di Ciccio Fricano, si pavoneggiava nella piazza del paese, nel bar, diceva che finalmente a questo cornuto di Fricano finalmente l’hanno ammazzato… mi fanno vedere il posto dove abita… vicino la casa c’era tipo una piazzetta con delle case diroccate e la mattina che io ho pensato di andarci a sparare.. io mi alzo col fucile calibro 12 e gli tiro la prima fucilata in testa… lui diciamo d’istinto, il sangue caldo, lui sterza con la macchina e va sbattere prima contro la nostra macchina e poi con una posteggiata… quindi altri 2 colpi uno in pieno petto e l’altra sempre addosso”.
“Traditore” era stato considerato anche Domenico Russo: “Era uno che stava vicino, non a noi, ma a Michele Graviano… arrivo dietro il caseggiato di questo Russo… sono messo nel tronco di un albero di mandarino… il figlio si accende il camion e se ne va… Russo alza la saracinesca e apre la bussola del supermercato… lui è messo così tipo un boss con le mani ai fianchi davanti al supermercato, tutta la gente che passava lo salutava. Una cosa che mi ha dato fastidio… mi alzo in questo mandarino e gli sparo una fucilata”.
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13 Gennaio 2015, 16:35