L’omicidio di Francesco Nangano | “Un atto di terrorismo mafioso”

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04 Marzo 2013, 20:20

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PALERMO – Un atto di terrorismo mafioso. Un omicidio per fare capire alla gente che Cosa nostra è ancora in grado di farsi carico delle istanze del territorio.

Il delitto di Francesco Nangano, assassinato nel cuore del rione Brancaccio, è stato un gesto eclatante di propaganda mafiosa. Ne sono convinti gli investigatori. La vittima non era ben voluta. C’erano forti segnali di intolleranza per il suo modo di fare. Ostentato e arrogante, il suo comportamento infastidiva non solo i mafiosi ma anche la gente comune. Le voci raccolte nel quartiere riferiscono di piccoli screzi quotidiani. Di qualche parola di troppo e di complimenti fuori luogo rivolti a una donna che potrebbero essere arrivati alle orecchie di chi comanda. Che, eliminando Nangano, avrebbe raggiunto un triplice obiettivo: togliere di mezzo un personaggio che scalpitava negli ambienti criminali, sbarazzarsi di un uomo inviso a tanti e lanciare un messaggio di forza. A pagare non è solo chi si mette contro chi comanda, ma pure chi rompe gli equilibri e crea malumori nel quartiere.

Da qui la scelta di ucciderlo alle otto di sera quando via Messina Marine è piena di gente. La mafia a Brancaccio sta giocando una partita psicologica. Ed è proprio nella zona che, infatti, i servizi segreti un anno e mezzo fa avevano raccolto la notizia che Nangano era in rotta con i vertici del clan. Adesso gli investigatori sono al lavoro per scoprire se si sia trattato di una macabra coincidenza oppure se la sua condanna a morte fosse scritta da tempo. La fonte confidenziale parlava di contrasti con Nino Sacco, in carcere da un anno e mezzo. La sezione Criminalità organizzata della Squadra mobile lo piazza nel triunvirato – Nino Sacco, Giuseppe Faraone e Cesare Lupo – alle dipendenze di Giuseppe Arduino che gestiva il clan sotto l’egida dei fratelli Graviano.

Nonostante due assoluzione dalle accuse di mafia e omicidio, Nangano si muoveva negli ambienti della criminalità organizzata. Scalpitava. Credeva di potersi fare largo contando su una grande disponibilità economica. Alcuni anni fa lo Stato lo risarcì con 270 mila euro per un lungo periodo di ingiusta detenzione. Soldi che però non giustificherebbero il tenore di vita mantenuto dalla vittima negli ultimi tempi. Nangano aveva sempre una banconota da cinquecento euro da sventolare sotto il naso del tabaccaio o del macellaio. Troppi soldi per un piccolo commerciante di auto. Ecco perché i pubblici ministeri Francesca Mazzocco, Caterina Malagoli e Gaetano Paci, coordinati dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci, stanno cercando di ricostruire gli interessi economici di Nangano che potrebbe avere fatto ricorso ad una rete di prestanome per occultare il suo patrimonio.

 

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04 Marzo 2013, 20:20

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