11 Novembre 2020, 19:03
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PALERMO – “Ho fatto parte di Cosa Nostra come picciotto alle dipendenze di Nino Ciresi. Io sono amico di Alessandro D’Ambrogio da bambini e quando sono uscito dal carcere il 13 dicembre 2011 lui mi ha chiesto di supportarlo”. Comincia così il racconto del neo pentito di Porta Nuova Alfredo Geraci, uomo del pizzo e grande amico di D’Ambrogio che fino al 2013 è stato uno dei personaggi più potenti e carismatici dell’intera Cosa Nostra palermitana.
Il racconto reso al pubblico ministero Amelia Luise da Geraci, che soffre di seri problemi di salute, parte dal 2013 ma arriva fino ai giorni nostri, disegnando il ruolo dei fratelli Salvatore e Massimo Mulè (“Comanda o è per la pressa?“).
Dice di avere scelto di collaborare per evitare che i figli si portino per sempre addosso il marchio mafioso per colpa sua. E aggiunge di avere invocato l’aiuto della madre defunta per trovare il coraggio di cambiare vita.
“All’epoca il mandamento di Pagliarelli si gestiva anche alcune cose di Porta Nuova e Ballarò era tenuta da Giovanni Castello – racconta -. Ricordo di un’importante mangiata tra D’Ambrogio e Giulio Caporrimo (potente boss di San Lorenzo, ndr) a Villa Pensabene per parlare di sistemazione organizzativa dei mandamenti. Poco dopo hanno arrestato Giovanni Castello e D’Ambrogio ha preso il comando di Palermo centro. Io ho sempre accompagnato il capo decina Ciresi che gestiva me e Giuseppe Di Maio per gli affari illeciti di Ballarò”.
D’Ambrogio era un boss all’antica. Bisogna non solo essere, ma anche apparire seri: “Non sono mai stato affiliato con la punciuta, Alessandro D’Ambrogio mi chiedeva di sposarmi in chiesa e diventare più serio a livello di costumi perché mi riteneva un soggetto valido e mi faceva comprendere che con un atteggiamento meno godereccio della vita avrei potuto aspirare ad altre funzioni”.
In effetti le mansioni superiori arrivarono: “Sono rimasto soggetto a disposizione con mansioni esecutive salvo che per un periodo, nell’agosto 2013, appena uscito dal Pagliarelli, quando mi viene offerta la possibilità da Giuseppe Di Giacomo (boss poi crivellato di colpi) di occuparmi del quartiere Ballarò affiancato la Stefano Comandè”
La mafia si regge sulla catena di solidarietà. Chi finisce in carcere deve sapere di potere contare sull’aiuto economico di chi resta fuori e si dà un gran da fare con il pizzo.
Nell’elenco degli stipendiati Geraci inserisce i nomi di “Giovanni Castello, Giuseppe Fava, Coniglio di cui non ricordo il nome e che venne poi tolto dalla lista da Tommaso Lo Presti perché con qualcuno gli avevano ucciso il padre, Franco Mulè, Massimo Mulé, Paolo Lo Iacono, Silvio Mazzucco eccetera. I capi prendevano 700 euro ciascuno come i due Mulè mentre i picciotti ricevevano 500 euro al mese. A Natale portavamo anche cesta e capretti alle famiglie dei detenuti”.
D’Ambrogio era molto attento alla gestione della cassa e per questo è stato un boss rispettato: “Ho sempre avuto grande stima e rispetto di D’Ambrogio sempre molto equo come capo mafioso per la ripartizione dei proventi di mafia per le famiglie dei detenuti”.
Geraci tesse le lodi di D’Ambrogio, altro spessore mafioso rispetto ai Mulè “che salutano spesso col saluto fascista a dimostrazione della loro caratura ben diversa e il loro atteggiamento rispetto a quello molto carismatico di D’Ambrogio”.
“Salvatore Mule e Salvatore Gioè litigano pure perché Gioè prendesse la reggenza – racconta Geraci -, ma nel frattempo uscì pure Tommaso Lo Presti che mi fece sostituire nel mio ruolo da Salvo Mulè che per tale ragione venne a chiedermi di consegnargli l’elenco dei detenuti da sostenere da anche delle vittime da estorcere”.
Tommaso Lo Presti, soprannominato il pacchione, ha avuto per un lungo periodo il bastone del comando: “Mi ordinò di fare riferimento a Salvo Mulè per qualsiasi azione ed io ho risposto che per me è un piacere essendo sempre andato d’accordo con lui. Uscito Paolo Lo Iacono questi pure si affianca al Mulè il quale era contento di avvalersi dell’esperienza del primo in materia di mafia ma anche di droga. Il padre del Lo Iacono era scomparso per lupara bianca e perciò sapevo che non poteva diventare per tale pecca uomo d’onore”.
Se nel caso di Geraci non ci fu la cerimonia di affiliazione, per Salvatore Mulè si rispettò il “protocollo” mafioso: “Nel 2014 Salvo Mulè viene battezzato, cioè affiliato dal Lo Presti diventando così uomo d’onore. Tale circostanza mi è stata narrata dallo stesso Mulè ‘ora ci sono io a Palermo centro’ e mi aggiunse che insieme a lui era stato affiliato anche Paolo Calcagno designato reggente a Porta Nuova, nel caso di carcerazione del Lo Presti. Nel dicembre 2015 vengo arrestato e resto dentro fino a gennaio 2016. Una volta uscito Massimo Mulé era libero ed ora so che è reggente di Palermo centro se non anche di Porta Nuova”.
Il pizzo veniva imposto a tappeto: “Io e Nino Ciresi abbiamo chiesto alle lambrette che portano in giro i turisti per la città di Palermo il pizzo. In particolare lo esigeva Nino Romagnolo poi deceduto”. Per controllare “nel porto c’era un botteghino dove avevamo una persona che poteva contarci i passaggi delle lambrette, quindi il Romagnolo non avrebbe mai potuto fare la cresta al riguardo. Quando subentra Salvo Mulè nella responsabilità su Ballarò, Paolo Lo Iacono ci disse che non ci dovevamo occupare più della riscossione”.
Un capitolo delle dichiarazioni di Geraci è dedicato al controllo dei boss sui buttafuori imposti nei locali della città. L’interfaccia di Cosa Nostra nel settore sarebbe stato “Catalano Andrea, che lo definisco il mafioso dei colletti bianchi, lavorava grazie alla mafia facendo guadagnare alla mafia soldi, ma non si sporcava le mani come facevamo noi”.
All’inizio “era un morto di fame”, poi si Catalano si sarebbe messo in affari con D’Ambrogio: “In seguito si è cercato di regolarizzare, perché certe discoteche avevano bisogno una regolarizzazione e hanno dovuto aprire una ditta. Catalano Andrea aveva già qualche locale dove lavorava come buttafuori, ma non era il responsabile. Poi ha capito che c’era odore di soldi, ha chiesto aiuto a Cosa Nostra, ha capito che c’erano molti locali a Palermo centro e con le conoscenze è arrivato anche a Isola delle Femmine, Sferracavallo e Casteldaccia, lui è una bandiera dov’è il c’è il vento va”.
Il 2014 è l’anno della svolta imprenditoriale: “Si è formalizzata la cosa, alla riunione eravamo presenti io, Tonino Ciresi, Serenella, Catalano, D’Ambrogio. Io in quel periodo raccoglievo il pizzo in via Candelai, in tutti i locali. D’Ambrogio disse vedi quali locali vuoi, se sono fuori alla nostra zona non ti preoccupare perché avevamo comunque altri referenti con cui parlare. D’Ambrogio disse a Catalano vai dove vuoi”. E i buttafori della mafia furono piazzati in tanti locali, alcuni molti noti.
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