30 Marzo 2009, 12:52
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Pino Maniaci veste come l’Omino della Bialetti: giacca, cravatta, pantaloni e calzini in tinta nera. Ha una macchina che è un pezzo da museo, con gli sportelli che si aprono a spallate. Ha cinquantacinque anni. Fuma tre pacchetti di sigarette al giorno. Quando ci pensa su, scherza macabro: «Non mi ammazzerà la mafia. Sarò assassinato dai monopoli di Stato». Pino Maniaci non ha il tesserino dell’ordine dei giornalisti. Solo una specie di salvacondotto garantito dall’Unione dei Cronisti. Eppure, da dieci anni, con la sua pungentissima Telejato, arrovella i sonni e gli affari delle cosche di Partinico e dintorni. Di recente, un rampollo della famiglia Vitale – signorotti un tempo incontrastati in questa landa di Sicilia talmente sciasciana da sembrare un falso d´autore – l’ha aggredito in paese, secondo la denuncia della vittima. Mani alla gola, calci, pugni e insulti, tutto a verbale. Il culmine di una serie di intimidazioni. Poi ci sarebbero circa duecentosettanta querele e cinquanta processi, perché Telejato è un’emittente familiare capace di picchiare sodo, a torto o a ragione. Ed è talmente originale l’idea di un giornalismo spregiudicato, in tempi di cronisti con le punte dei pennini arrotondate, che la televisione francese ha deciso di produrre una fiction su Pino e sui suoi. Sì, proprio una fiction: evidentemente, ormai, la stampa coraggiosa somiglia a un manufatto di fantasia.
Pino Maniaci è un giornalista. Talvolta può eccedere, usando riprese e testi come un’arma contundente, ma non conosce il collare del potere. Magari ha uno stile tutto suo che farebbe inorridire i cattedratici delle scuole per aspiranti grandi firme. Magari a Enzo Biagi non sarebbe mai passato per la testa di dire, durante un collegamento sulla cattura di Provenzano: «Binnu mangiava pane e cicoria. Ora mangia nzoccu ci passa u guviernu». Magari Michele Santoro non si sarebbe fatto riprendere davanti alla distilleria Bertolino, in un reportage sull’ambiente, «alla ricerca della puzza perduta». E l’inamidato Giovanni Floris mai avrebbe ironizzato, dichiarando: «L’inquinamento non deriva dalla distilleria. Deriva dalle scorregge dei partinicesi». Pino Maniaci è tutto questo e molto altro ancora. È un paradosso che svela le magagne e i silenzi dell’informazione accreditata. È il campione di un mestiere che cuce la sua stoffa sulla strada, con le parole raccattate lì per lì, che sa ancora mettere in luce i fatti, i volti e i sentimenti, a dispetto delle pappine precostituite. È il monello sgangherato e discusso che sottolinea le omissioni di carta stampata e televisioni. Seguirlo, accompagnare l’Omino Bialetti in una giornata tipo a Partinico, significa semplicemente correre all’impazzata, come matti. Appuntamento al bar della piazza. Pino prende un caffé con i suoi angeli custodi: la scorta di carabinieri assegnata dopo l’aggressione. Sono tutti militari in gamba e non sottovalutano il compito. Ci sono stati diversi omicidi, nell’ultimo anno, a Partinico. Qui, morire di mafia, a ritmi sostenuti, non è più un’anticaglia, roba da faldoni ammuffiti. Succede sul serio. Maniaci sorseggia l’espresso e mostra il suo telefonino. Il numero è pubblico, si trova sul sito dell’emittente: www.telejato.it. Ignoti, più o meno noti, gli inviano continuamente sms su malversazioni, su ricatti e affari loschi. È un cellulare da battaglia, in trincea. In mezza giornata di corsa e riprese squillerà almeno un centinaio di volte. Pino Maniaci non è solo. Accanto a sé ha la famiglia. Il figlio Giovanni, operatore rotto a ogni evento e la figlia Letizia, vincitrice del premio “Cutuli”. Una ragazza di ventitrè anni con due occhi verdi e l’apparenza tenera. Una che ha ripreso certe scene di intrecci e azioni compiute al buio, rannicchiata nella pancia di una pala meccanica. «Noi siamo arrivati per primi sul luogo dell’arresto dei Lo Piccolo a Giardinello – narra l’uomo col microfono incorporato, e da qui in poi la scena sarà tutta sua -. Sai come è successo? Da quelle parti, ho un fratello sacerdote, che ha sentito gli spari e mi ha telefonato. Ci siamo messi in macchina, senza sapere niente. E abbiamo trovato il covo del boss. Se ho paura? Certo, un po’ di paura c’è, soprattutto per i miei cari. Noi andiamo avanti e non ci ferma nessuno. Mi dovrò spaventare forte, quando i riflettori non illumineranno più la nostra attività quotidiana. Quello sarà il momento buono per farci del male. La mafia non perdona e non dimentica». La mafia della cosca Vitale che aveva costruito le sue cinque stalle abusive, su un antico borgo del Settecento. Pino vola con la sua macchina sgarrupata. Il commissario del comune di Partinico ha trovato i fondi per bonificare la zona. «Averle abbattute è un segno di recupero della legalità». La scorta tiene il passo. Tutto in un lampo. L’arrivo sulla collinetta delle stalle demolite, il servizio e una posa per il fotografo Michele Naccari («Tu non sei quello che ha scattato la foto dei cannoli di Totò Cuffaro?» chiede Pino Maniaci, ricordando benissimo) con le dita a “V” di vittoria sulle macerie, tanto per risultare ancora più simpatico ai vassalli di Cosa nostra. Una sigaretta e via: «Facciamo una fatica pazzesca. Montiamo il materiale, mentre il telegiornale va in onda. Come è nata Telejato? Era la tv dei comunisti, in crisi. Anzi, al collasso. L’ho rilevata ed è nato uno strumento di legalità e democrazia. Ora, alcuni personaggi illustri leggeranno il nostro telegiornale per solidarietà. Aspettiamo don Luigi Ciotti e Pina Maisano Grassi. La nostra squadra è fortissima. Ci sono i miei figli, ragazzi e studenti universitari che vengono a imparare il mestiere. Sai come è finita con l’aggressione del rampollo dei Vitale? Dovrà decidere il giudice di pace. Dico: il giudice di pace!». Le sigarette nel frattempo sono diventate quattro. Non è un buon motivo per non accenderne un’altra.
Non tutti amano colui che è riuscito a diventare un personaggio. Angelo Vitale e Walter Molino gli dedicano il seguente ritrattino sul blog “Liberamente”, col post dal titolo “Antimafia pregiudicata”. «A pensar bene qualcuno è un po’ disinformato, e prima di dipingere eterei acquerelli di legalità farebbe bene a scavare un po’ in profondità, senza nemmeno sforzarsi troppo – scrivono i due -. A pensar male si finirebbe alle care vecchie categorie degli “utili idioti”, ma questa è ormai storia. Eppure il miracolato ha perfino dei meriti riconoscibili che legittimano la sua funzione nel territorio (vedi presidio della battaglia contro la distilleria Bertolino, sia pur con modalità spesso discutibili), ma lascia sgomenti qualche spericolato (e per fortuna sporadico) accostamento a figure-simbolo del nostro territorio come Danilo Dolci e Peppino Impastato, straordinari esempi di attivismo democratico, impegno civile, sacrificio personale e spessore culturale, schierati sempre – sempre! – dalla parte giusta». I commenti si dividono tra maldicenti e benedicenti. L’Omino in nero sa per filo e per segno di non essere amato da tutti e non sembra soffrirne: «Sono un rompiscatole e mi vanto di esserlo. Gli attacchi più feroci non li ho subiti dalla mafia. Sono stati certi colleghi a mettermi in croce, quando li abbiamo oscurati con l’audicence. Non mi sono mai preoccupato di avere un tesserino dell’ordine. Chissà, me lo daranno postumo, come accadde per Peppino Impastato. Ovviamente, spero di no. Abbiamo creato una rete solida di informatori e simpatizzanti. Le persone si fidano di noi, perché siamo credibili». Non sarebbe poco in un’era che vede i giornalisti sul banco degli imputati, alla mercé del primo Grillo di passaggio. «Partinico ha la fortuna di avere polizia e carabinieri in gamba, con ottimi dirigenti. Tuttavia, siamo all’anno zero. Quelli che comandano continuano a ingrassare, passeggiano in piazza. Siamo in trincea. Sei a contatto col nemico. Il vecchio mafioso che conosce l’arte dell’ipocrisia ti saluta con un lampo negli occhi. Poi ci sono i giovani con le mani che prudono. Sono grato ai ragazzi che proteggono me e la mia famiglia, anche se ho chiesto la remissione della scorta che non mi è stata accordata. E più complicato andare avanti con questo lavoro, se hai i carabinieri a un passo. Hanno fatto saltare in aria gente superprotetta come Falcone, vuoi che si fermino davanti a me? Sanno dove stiamo, dove andiamo e cosa mangiamo. Quando vogliono possono venire a visitarci». È il momento di lasciare le macerie delle stalle abusive e di schizzare in redazione per montare i pezzi e preparare la diretta. Le sigarette non si contano. «Reporter Senza Frontiere ci ha inserito nella classifica dei giornalisti più minacciati. Non ho paura per me, ho paura per i miei figli. Hanno scelto di seguire la mia strada. Sono la mia felicissima dannazione». E qui, il cuore di Pino Maniaci esce dal vestito scuro e mostra tutta la sua paterna apprensione. Gli occhi diventano piccoli piccoli. Il respiro sussurra con un affanno sconosciuto. L’ansia passa con la terapia della nicotina. Un’altra sigaretta.
La redazione di Telejato è composta da poche e confuse stanzette. Accanto alla scrivania del conduttore, c’è una porta che permette l’accesso a un lindo WC. Le cassette sono dappertutto come le caricature del direttore. Qualcuno, ha dissezionato per gioco il suo corpo magrissimo e messo in vendita gli organi, pur di pagare le querele. Dato l’eccessivo numero di cicche consumate, i polmoni sono praticamente regalati. Pino è già in fibrillazione. Il tg incombe. Lui trova ancora l’opportunità di chiacchierare, di scavare e di congedare con cordiale brutalità un politico venuto a chiedere un trattamento di favore, in cambio di sostegno alla minuscola e agguerritissima tv. Sotto una pila di carte c’è un bigliettino: «Cercare la verità: con passione, coraggio, rigore, senza riguardo verso chi vuole insabbiare, smorzare, condizionare. Cercare la verità, conoscendo i fatti, esercitando l’analisi, sapendo distinguere per non confondere. Siamo tutti Pino Maniaci. Perché Pino non deve sentirsi solo. Perché abbiamo bisogno di un giornalismo fatto di impegno civile». Firmato: don Luigi Ciotti. A Telejato hanno perfino dedicato una tesi di laurea. Si legge, tra i paragrafi della studentessa Daniela Tudisca: «Più grave dei pugni, dei calci e delle gomme tagliate è lo stato di assuefazione programmata in cui si trovano le grandi testate giornalistiche, sia siciliane che nazionali, nel trattare la questione mafia, rivolgendo l’attenzione solo all’aspetto militare del sistema mafioso e tralasciando i suoi legami economici e politici». Ci vuole una fragile barchetta informativa per attraversare gli oceani dell'”assuefazione programmata” e approdare oltre.
Scocca l’ora della diretta. L’Omino Bialetti si aggiusta il cravattino: «Come voglio essere ricordato tra cento anni? Come uno che ha cercato di costruire il senso della legalità e della democrazia in una terra bellissima e arida. No, no, troppo complicato. Scrivi così: come uno che ha preso a pedate nel culo i mafiosi. Mi pare meglio no?». Almeno è in perfetto stile Telejato. Tutto è pronto per la sigla. Letizia sistema gli ultimi dettagli. E tu non hai paura? La figlia di Pino spalanca gli occhi verdi. Ci riflette. Risponde: «Sì. Ma ho anche coraggio».
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30 Marzo 2009, 12:52