04 Ottobre 2015, 15:29
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PALERMO – I tempi sono impietosi e fanno a pugni con la definizione di “giudizio abbreviato”. Perché il processo che vede imputato Calogero Mannino è tutto fuorché un giudizio breve. Così sperava che fosse l’ex ministro democristiano imputato per avere avuto un ruolo nella presunta trattativa fra i boss di Cosa nostra e pezzi dello Stato a cavallo delle stragi.
A prescindere dal merito delle accuse, a prescindere dalla innocenza o dalla colpevolezza dell’imputato, a prescindere da come andrà a finire, c’è una certezza: i numeri dicono che la speranza dell’imputato Mannino di fare in fretta è risultata vana. Anche se la sentenza dovesse essere emessa il 4 novembre, data della prossima udienza, saranno comunque passati due anni dall’inizio del processo (4 dicembre 2013) e quasi tre dal momento (4 marzo 2013) in cui i legali di Mannino – gli avvocati Grazia Volo, Nino Caleca, Carlo Federico Grosso e Marcello Montalbano – chiesero il giudizio abbreviato. Già allora il giudice per l’udienza preliminare Piergiorgio Morosini, contestualmente alla decisione di mandare sotto processo tutti gli altri imputati, avrebbe potuto decidere le sorti processuali di Mannino. Così non è andata. Morosini chiese di astenersi perché aveva già fatto dell’attività istruttoria per rinviare a giudizio gli altri imputati. Dunque, era in qualche entrato nel merito delle accuse e così ottenne di astenersi dal presidente del Tribunale.
Il fascicolo fu assegnato a Marina Petruzzella che era stata designata Gup supplente qualora si fosse verificato un qualsiasi impedimento di Morosini. Il processo davanti al nuovo giudice iniziò il 4 dicembre 2013. E anche allora la sentenza sarebbe potuta arrivare subito. L’abbreviato è un giudizio che si celebra “allo stato degli atti” ovvero sulla base di quelli che sono i risultati delle indagini preliminari della polizia e che sono confluiti nel fascicolo del pubblico ministero. L’imputato in caso di condanna ha diritto allo sconto di un terzo della pena. In teoria il giudice avrebbe potuto invitare subito le parti a concludere. Ed invece di rinvio in rinvio senza alcuna attività istruttoria nuova – tranne un’occasione in cui i pm chiesero l’acquisizione di nuovi documenti scatenando la dura reazione degli avvocati – la richiesta di condanna a nove anni dei pm Teresi, Tartaglia, Di Matteo e Del Bene arrivò l’11 gennaio 2014. Poi, toccò alle arringhe difensive.
E siamo giunti al 30 settembre scorso, quando sembrava davvero la volta buona. Sembrava, appunto, perché a sorpresa il giudice Petruzzella ha pronunciato un’ordinanza con la quale ha disposto l’acquisizione di una serie di documenti e atti chiesti rispettivamente da accusa e difesa nel corso idi udienze precedenti. Secondo il giudice, si tratterebbe di materiale assolutamente indispensabile per la decisione. Un nuovo rinvio che – mettendo tutti per una volta tanto d’accordo – non è piaciuto né ai pubblici ministeri, né ai difensori.
Nessuno può escludere che anche il 4 novembre prossimo ci sia un nuovo colpo di scena. Il Gup potrebbe per esempio chiedere di acquisire nuove prove che riterrà indispensabili. Se così accadesse saremmo di fronte ad un abbreviato infinito. Che non sta bene all’accusa e, soprattutto, all’imputato che attende di conoscere il suo destino giudiziario ormai da anni, come gli era già accaduto in passato quando fu arrestato e assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Esattamente dal giugno 2012 quando seppe di essere finito sotto inchiesta nel momento in cui gli recapitarono l’avviso di conclusione delle indagini. C’era anche lui fra i “pezzi” dello Stato che avrebbero trattato con i boss.
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04 Ottobre 2015, 15:29