05 Febbraio 2019, 16:28
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PALERMO – Una latitanza infinita. Le tracce di Matteo Messina Denaro non si vedono e non si sentono. È un capo che si è fatto da parte, impegnato com’è a non farsi acciuffare. Lo dicono gli investigatori. Capita così che le considerazioni di chi dà la caccia al padrino trapanese finiscano per essere sfruttate dagli avvocati nel tentativo di di smontare le accuse nei processi.
“Messina Denaro non ha più alcun ruolo nell’organizzazione e che quindi è defilato, non lascia tracce, non partecipa alle riunioni, non ha strategie criminali, gli affiliati non rendono conto a lui”, l’avvocato Domenico Trinceri inizia la sua arringa leggendo degli appunti. Poi, chiarisce: “Signori della Corte, non sono parole mie, ma di un autorevole investigatore, il questore di Palermo, Renato Cortese. Se le avessi pronunciate io non avrebbero alcun valore, ma a parlare è il poliziotto che ha arrestato Bernardo Provenzano”.
Cortese nelle scorse settimane ha rilasciato un’intervista al Sole 24 Ore. Da qui la provocazione del legale: “Mi attenderei che venisse convocata d’ufficio l’audizione del questore e di altri investigatori che hanno fatto dichiarazioni simili per sapere da quali qualificate fonti vengono le notizie, visto che ci sono persone accusate di avere fatto parte di un’associazione a delinquere capeggiata dal latitante che non è neppure imputato in questo processo”.
Chissà se prima di entrare in camera di consiglio, dopo avere ascoltato tutte le arringhe, la Corte d’appello presieduta da Roberto Murgia accoglierà la richiesta del legale. Sotto processo ci sono i cosiddetti pizzinari agli ordini di Matteo Messina Denaro. Il giudice in primo grado aveva condannato Pietro Giambalvo, Michele Gucciardi e Giovanni Domenico Scimonelli (tutti a 17 anni ciascuno di carcere) Vincenzo Giambalvo (13 anni), Michele Terranova (12 anni), Giovanni Loretta (4 anni per favoreggiamento).
Il procedimento scaturisce dall’operazione “Ermes” dell’agosto 2015. Fino al marzo 2010 il sistema di trasmissione della corrispondenza era stato gestito dai cognati del latitante, Vincenzo Panicola e Filippo Guttadauro, e dal fratello Salvatore. Finiti anche loro in carcere Messina Denaro avrebbe guardato al passato per rimpiazzarli affidandosi all’anziano boss Vito Gondola, oggi deceduto.
Messina Denaro è o no il loro capo? “Ce lo spieghino”, dice Trinceri. L’intervista di Cortese non è l’unica per la verità a tracciare la figura di un latitante che si è defilato. Una ricostruzione che, indagini alla mano, non sembra discostarsi dalla realtà finora conosciuta. Qualche settimana fa, però, la Procura di Palermo ha chiesto il rinvio a giudizio di Messina Denaro. Lo vuole processare in qualità di capomafia “dell’intera provincia di Trapani e in tutta la Sicilia occidentale”. È lui che “ha impartito direttive anche attraverso rapporti epistolari e costituito il punto di riferimento mafioso decisionale in relazione alle attività e agli affari illeciti più importanti gestiti da Cosa nostra nella provincia di Trapani ed in altri luoghi della Sicilia”.
Nell’estate del 2016 è stato ascoltato il dialogo fra due partannesi, Nicola Accardo e Antonino Triolo: “… hai scritto tu?”; “… glielo ho fatto sapere… il fatto… Matteo”; “… ed hai chiuso il conto?”; “Tu domani ci vai…”; “… no … io domani…”; “.. lascia perdere… ascolta lui… qua non gli ha detto che sta qua… dice che era in Calabria ed è tornato…”. Mentre parlavano si sentiva in sottofondo il rumore dello sfregamento della carta. Gli investigatori sono certi che i due avessero in mano un pizzino scritto dal latitante che al rientro dalla Calabria avrebbe pianificato degli incontri:
Nell’estate successiva, agosto 2017, è stata registrata una nuova conversazione all’interno della macchina di Dario Messina, considerato il reggente del mandamento mafioso di Mazara del Vallo. Messina chiedeva informazioni su un biglietto a lui destinato: “… mi è arrivato questo coso a me…”.
“Tutti lo nominano, tutti lo cercano, alcuni addirittura millantando di averlo incontrato”, taglia corto Trinceri.
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05 Febbraio 2019, 16:28