Quei dubbi su Messina Denaro |”Dateci la prova che sia vivo”

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27 Giugno 2016, 15:54

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PALERMO – “Dateci la prova che Matteo Messina Denaro sia vivo e faccia il mafioso a tempo pieno”, dice nella sua arringa Luigi Miceli. Prima o poi qualcuno avrebbe dovuto sollevare in aula il dubbio sull’esistenza in vita del capomafia trapanese. Lo ha fatto l’avvocato Miceli che assieme a Giovanni Castronovo difende Francesco Guttadauro, nipote del latitante e condannato in primo grado a 16 anni.

“Dateci la prova – tuona il legale in corte d’appello – altrimenti Guttadauro sarà un uomo da bruciare per offuscare l’interminabile fallimento investigativo (il riferimento è alla lunga latitanza del boss, ndr)”. Perché, sostiene il legale, al nipote del padrino, oggi detenuto al carcere duro, non viene contestato di avere fatto parte di Cosa nostra, ma di essere stato il portavoce degli ordini dello zio. Di essere stato, cioè, il braccio operativo del latitante, l’uomo attraverso cui il boss avrebbe continuato a dettare legge. Portavoce di chi, di qualcuno, “di cui non siamo certi neppure se sia vivo?”, dice il legale citando anche i resoconti giornalistici.

Messina Denaro resta l’ultimo dei padrini latitanti. Ha compiuto 54 anni, di cui 23 trascorsi in fuga. Ufficialmente diventa latitante il 2 giugno 1993 perché accusato delle stragi di Roma e Firenze, ma anche di centinaia di omicidi commessi fra gli anni Ottanta e Novanta. Il punto è che alle piste quanto meno plausibili si sono sommate quelle improbabili o addirittura false.

Tralasciando le lettere con cui, a sedici anni, scriveva al preside della scuola per comunicargli il ritiro dalle lezioni, di lui conosciamo i pizzini recuperati a Montagna dei Cavalli, l’ultimo covo di Bernardo Provenzano, e il carteggio con l’ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, alias Svetonio, in cui criticò anche la scelta del capo corleonese: “Delle mie lettere, pare ne facesse collezione – scriveva Messina Denaro, firmandosi Alessio – non so perché ha agito così e non trovo alcuna motivazione a ciò e, qualora motivazione ci fosse, non sarebbe giustificabile”.

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Per il resto il nulla. Negli ultimi anni sono state azzerate le reti dei pizzinari. Per ultima quella che avrebbe fatto capo a Vito Gondola, anziano boss di Campobello di Mazara. Se davvero le cose sono andate come hanno ricostruito gli investigatori, le uniche sbavature il latitante le avrebbe avute facendosi vivo con la sorella Patrizia, pure lei in cella e condannata a tredici anni nello stesso processo di Guttadauro. “Matteo dice… “, il fratello ordinava e lei eseguiva quando c’erano in ballo direttive importanti.

Ad un certo punto si era sparsa la voce che Giuseppe Grigoli, l’uomo del business della grande distribuzione targata Cosa nostra, avesse iniziato a parlare con i magistrati. E Vincenzo Panicola aveva incaricato la moglie Patrizia di sondare il terreno, di capire quale contromisura prendere. In ballo, forse, c’era addirittura l’ipotesi estrema di eliminare Grigoli. Poi, sarebbe arrivato il diktat di Matteo: “Non toccatelo, perché se parla può fare danno”. Come arrivò l’ordine? Stavolta non ci sarebbero pizzini di mezzo. La comunicazione sarebbe stata diretta. A voce. Un incontro faccia a faccia o forse una telefonata via Skype? La stessa donna portò l’ambasciata di Messina Denaro in carcere a Panicola. “Di’ a tuo marito – le avrebbe detto il fratello latitante – di mettersi nella stessa cella con lui”. Per controllare Grigoli, per tenerlo buono. Per evitare che facesse danno.

Le carte giudiziarie, in questi anni, si sono riempite di persone che hanno detto di parlare per nome e per conto del latitante. Che resta un fantasma.

 

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27 Giugno 2016, 15:54

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