11 Giugno 2012, 10:45
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L’episodio risale a circa 15 anni fa. Allora ancora fumavo (per fortuna da 14 anni ho smesso) e in un pomeriggio di scirocco d’estate mi fermai con la motocicletta davanti a un tabaccaio per comprare un pacchetto di sigarette. Fin qui la banalità della vita quotidiana.
Ma non potevo immaginare, prima di entrare, che da lì a qualche minuto avrei avuto uno dei segnali più forti che i tempi stavano cambiando o forse erano già cambiati in modo per me incomprensibile e credo per tutti deleterio. Entrato nella tabaccheria vidi che, dietro il bancone, c’era un ragazzo di 17-18 anni. Gli chiesi un pacchetto di Diana blu e mi sentii rispondere: “Come le vuoi dure o morbide?”. Dopo un attimo di perplessità (forse non avevo sentito bene; ma no, no avevo sentito benissimo) mi venne spontaneo rispondere con una domanda: “Io ero nella sezione D al liceo ma non mi ricordo di te. Eravamo forse compagni di classe?”. Mi resi immediatamente conto che il ragazzo non aveva colto la mia risposta-domanda sarcastica e irritata e quindi non aveva capito perché parlassi di scuola e compagni di classe. Lasciai perdere, uscii dalla tabaccheria e non potei fare a meno di pensare all’episodio occorsomi qualche attimo prima.
Secondo quale schema educazionale un ragazzo di 18 anni dà del “tu” ad un adulto?
Ma poi, riflettendo, mi resi conto che quel giovane tabaccaio non era l’eccezione. Anzi atteggiamenti come il suo stavano divenendo la norma. Ripensandoci, in effetti, già in quegli anni gli amichetti dei miei figli, ragazzini di 10-12 anni, quando venivano a casa, davano spontaneamente del “tu” a mia moglie e a me. Anche noi quando eravamo bambini davamo del “tu” agli amici più intimi dei nostri genitori (comunque soltanto a questi) riconoscendo però loro lo status parentale acquisito di “zio” o “zia”.
Il più caro amico di mio padre, ad esempio, era per me il mitico zio Carmelo (mitico perché spesso, a differenza di mio padre, mi portava allo stadio con lui). Questo status di parente acquisito sancito dal nome preceduto dalla dizione “zio” permetteva di coniugare la confidenza che si era instaurata con questa persona (dargli del “tu”) con il rispetto per l’adulto (“zio”). Ancor oggi per me è inconcepibile pensare di chiamare lo “zio Carmelo” soltanto Carmelo.
Tutti i conduttori televisivi o radiofonici che chiamano al telefono i telespettatori o i radioascoltatori durante le trasmissioni di intrattenimento, danno immediatamente del “tu” a perfetti sconosciuti. Ed è veramente acre scoprire che l’interlocutore del conduttore, a volte, è magari una persona di 80 anni, il quale ha quindi 50 anni di più del suo interlocutore trentenne.
Tutti gli istruttori di sport (sci, tennis, golf, equitazione, per citare soltanto quelli che fanno parte della mia personale esperienza) ti danno del “tu” e senza peraltro neanche condividere con te questa possibilità. Quando arrivi in un villaggio vacanze darsi del “tu” tra persone che, ancora una volta, possono avere una differenza d’età di 50 anni è addirittura un obbligo. Ancora, in tutti gli ambiti di lavoro, oggi, tutti danno del tu a tutti. Il direttore che si dà del tu con un suo impiegato, da un canto fa erroneamente credere a quest’ultimo di essere in una posizione paritetica rispetto al suo superiore e dall’altro si pone egli stesso in una condizione certamente di maggiore difficoltà nel caso in cui, come spesso avviene nella quotidianità dei rapporti di lavoro, debba riprendere il collaboratore.
Qualche mese addietro una biologa della Clinica che dirigo entrò nella mia stanza (dopo aver bussato) e mi raccontò concitata e offesa che una segretaria, dandole del tu, le aveva detto, con fare sprezzante e di fronte a dei pazienti, di provvedere lei a farsi delle fotocopie che invece è compito preciso delle segretarie. Ho provato a spiegare alla biologa che una delle cause che aveva autorizzato la segretaria a rispondere in quel modo sgarbato e non rispettoso era quel “darsi del tu”, che lei aveva concesso. Le spiegai altresì che fuori dal luogo di lavoro le persone possono essere amiche e darsi del tu, indipendentemente dal ruolo che occupano in azienda, ma che, in ambito lavorativo, il lei diventa uno strumento utile per far rispettare la gerarchia indispensabile perché una struttura possa lavorare nel modo più efficiente.
Sono assolutamente convinto che quella che si vuol far passare per una forma di democrazia è soltanto un modo per intorbidire le acque, confondere i ruoli e rendere molto più difficile la gestione degli inevitabili attriti tra posizioni gerarchiche diverse.
Peraltro, se vogliamo proprio dirla sino in fondo (da quante critiche sarò subissato per questo passaggio!), il collaboratore spessissimo utilizza questa autorizzazione al “tu” come una clava per dimostrare ai terzi un rapporto paritario con il capo o più semplicemente per cantarsi continuamente il ritornello di sempre: “Siamo uguali io e lui; soltanto casualmente lui è il direttore. Ma se le cose fossero andate in un modo appena diverso, noi due (io ed il direttore) lavoreremmo in quest’azienda a ruoli rovesciati”.
Purtroppo anche i professori a scuola, in tanti casi, oggi permettono agli alunni di dar loro del tu. In questo modo io ritengo che essi stessi contribuiscano alla perdita di autorità e anche di autorevolezza di cui poi (giustamente) si lamentano. So bene che il tracollo di autorevolezza dei professori è la conseguenza di tante cause ben più gravi che non il permettere agli alunni di dare del tu, però è come dire: poiché ho preso tante bastonate provvedo io stesso a darmene delle altre. Questo “annulliamo le differenze” non è utile a creare empatia ma soltanto a indurre i ragazzi a pensare che possano permettersi tutto quello che ci si permette tra uguali.
Quale grande empatia c’era, ad esempio invece, tra me e il mio professore di filosofia del liceo al quale, ovviamente, io davo rigorosamente del lei, ma che ritenevo davvero un eccezionale didatta che mi guidava nel mondo della conoscenza.
Non per volere far sempre riferimento al passato come modello, ma certamente quanti anni luce sono passati da quando, a proposito di dare del tu, io giovane medico (appena entrato di ruolo in ospedale) fui invitato dai colleghi più anziani, ma miei pari grado, a dar loro del tu.
Io, dopo averli ringraziati, dissi loro che per me non era soltanto importante la sostanza, essere cioè colleghi e pari grado ma che, in rapporto alla nostra differenza di età e quindi di esperienza, il mio voler continuare a dar loro del lei esprimeva una deferenza nei loro confronti e la contezza sempre presente che, se pur colleghi e pari grado, tra noi vi era un incolmabile abisso di diversità di esperienza che il Lei serviva a ricordare e a sottolineare.
Mi rendo conto che l’obiezione facile è che non è il tu o il lei che, nella concretezza, cambia il rapporto di rispetto e deferenza verso chi si riconosce essere una persona con maggiore esperienza, ma secondo me aiuta. Comunque è vero il contrario; infatti il tu porta ad annullare distanze di età, storia, cultura, esperienza, background personale e a confondere tutti in una maionese alla fine per tutti improduttiva.
Circa 10 anni addietro ebbi modo di aiutare (per una serie di fortuite coincidenze) un professore universitario (anni 73), amico dei miei genitori e che mi conosceva da bambino, nell’ottenimento di un prestigioso incarico all’interno delle istituzioni, incarico che peraltro assolutamente meritava per curriculum e storia personale. Dopo essere stato nominato, il professore mi volle incontrare e nel ringraziarmi per averlo aiutato mi chiese di dargli del “tu”, dopo tutto quello che “io avevo fatto per lui”. Gli risposi nell’unico modo per me possibile: “Professore io l’ho aiutata in qualcosa che ritenevo giusto Lei potesse ottenere, credo perciò di non meritare che Lei mi metta in imbarazzo chiedendomi di darle del tu e in tal modo stravolgendo la storia del nostro rapporto”. Da bambino per me il professore era “il professore” e tale era rimasto sempre. Il “tu” sarebbe stato, per me, un “gessetto che insopportabilmente graffia la lavagna”.
Nella nostra lingua il “lei” non è soltanto una forma semantica di primo approccio nei confronti delle persone che non si conoscono ma, principalmente, è una modalità di espressione del rispetto dei più giovani verso le persone più grandi. So bene che nella lingua globale, l’inglese, esiste soltanto la forma “you” ma, attenzione, gli inglesi esprimono la deferenza e il rispetto nei confronti dell’interlocutore in rapporto a come contestualizzano l’uso di “you”. Quello che, secondo me, è oggi gravissimo è che si stia perdendo il rispetto per le persone più grandi, per gli anziani, per coloro che, comunque, meritano la nostra deferenza (parola desueta ma quanto forte e chiara).
Il “Tu” a tutti e ad ogni costo è soltanto una spia di questa perdita del riconoscimento delle diversità e del rispetto per questa diversità che non è soltanto anagrafica, ma anche di esperienza, di conoscenze, di storia, di vissuto, ecc.
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11 Giugno 2012, 10:45