Miccoli: "Falcone non è un fango | La mafia, invece, sì" - Live Sicilia

Miccoli: “Falcone non è un fango | La mafia, invece, sì”

L’ex capitano del Palermo, in un’intervista concessa al settimanale Sportweek, torna sui fatti extracalcistici che hanno “macchiato” la sua storia rosanero.

l'ex capitano a sportweek
di
4 min di lettura

PALERMOLe verità di Miccoli, parte due. L’ex capitano del Palermo, in un’intervista concessa al settimanale Sportweek, torna sui fatti extracalcistici che hanno “macchiato” la sua storia rosanero. Un Miccoli a cuore aperto. Il calciatore, dopo le sconvolgenti ingiurie al giudice Falcone, torna a chiedere scusa e questa volta definisce “fango” la mafia, tutti i boss. Ma Miccoli parla anche della sua amicizia con il figlio del boss Lauricella: “Lui un mafioso? All’inizio non me n’ero accorto – dice Miccoli – l’ho conosciuto al campo d’allenamento del Palermo: sapevo che giocava a calcio nelle serie minori, tutto qui. Poi sì, col passare degli anni ho saputo tutta la sua storia. Ci vedevamo soprattutto d’estate, andavamo a bere qualcosa, ci sentivamo al telefono ogni tanto. Perché non ho evitato di vederlo? Perché mi son rifiutato di condannarlo solo per il cognome che porta. Per me era un ragazzo pulito, fuori da ogni giro, e per quel che ne so, completamente incensurato. La Ferrari con cui si faceva fotografare Lauricella era la mia. Lui era ben visto, lo salutavano tutti. Se mi proponevano aiuto? Il fatto è che a Palermo me lo dicevano tutti. Ma di cosa potevo aver bisogno io? Di entrare in discoteca? Se volevo, me la compravo la discoteca. Di proteggermi dai tifosi? Mi suona strano, visto che i tifosi volevano parlare solo con me. Io non vado a guardare i tatuaggi. Ripeto: era l’amicizia tra un ragazzo di venticinque anni e uno di trenta. Avevo la sensazione che gli mancasse affetto, e ho cercato di stargli vicino. Identificarmi in lui? Forse sì”.

Miccoli continua a raccontare: “A dodici anni ero già via di casa, a Milano, in un dormitorio dei preti. Mio padre lo vedevo solo a Natale, e soffrivo tantissimo. Distacchi così prematuri, forse, andrebbero impediti. Sono felice d’essere andato dai giudici. Avrei dovuto farlo prima. Ora mi sento nudo. Ma libero”. Miccoli, indagato per  tentata estorsione e accesso abusivo al sistema informatico – come in conferenza stampa – non parla dell’interrogatorio avuto in Procura qualche settimana fa: “Di questo non posso parlare, l’ho promesso ai magistrati. Dico solo che in quella discoteca non ci sono mai andato, non conosco i proprietari e neppure so dove sia. Le discoteche non mi piacciono. Non so neppure ballare”.

“Falcone è un fango”, una frase, intercettata, che ha praticamente rovesciato il rapporto tra Miccoli e la città di Palermo. L’ex capitano rosanero racconta come è andata: “Era il 13 agosto 2011, uno dei pochi giorni liberi dopo un mese di ritiro in Austria. E’ stata una cosa detta in macchina, dopo una nottata in un locale, alle cinque meno venti del mattino. Non ero al telefono. S’è trattato di un’intercettazione ambientale. Non avevo bevuto. Ma il clima era quello lì, insomma, da serata. Non spero niente. Quello che ho detto rimane gravissimo, e mi scuserò all’infinito, con la città e con la famiglia Falcone. E’ per questo che durante la conferenza stampa in cui ho cercato di chiarire la situazione non ho fatto cenno a queste cose. Non voglio alibi. Se cercavo di compiacere qualcuno? Non so, non ricordo. Ma non credevo fosse una parola così pesante. Al campo la usavamo tutti, per prendere in giro i compagni, il magazziniere, i preparatori. Fango di qui, fango di là. E’ una cosa che ho detto così, stupidamente, senza pensare. Chiedo scusa a tutti”.

Il pentimento di Miccoli è globale, tanti errori fatti anche per troppa sufficienza. “La mafia mi fa schifo – afferma il salentino – fango sono i boss, certo, sempre che la parola fango sia sufficiente. Guttadauro? Non so. Lui l’avrò visto tre volte, forse quattro, in 6 anni. Ripeto: in città ho frequentato tutti, a 360 gradi. Ho trascurato la famiglia per donarmi a Palermo. Abbiamo litigato molte volte su queste cose. Flaviana me lo diceva sempre: sei un coglione. Adesso posso dire che aveva ragione. Perché andavo ovunque, arrivavano gli inviti e non rifiutavo mai. Mi sentivo uno importante. La figura più importante per lo sport in città”.

Poi ancora sugli errori commessi nei suoi sei anni a Palermo: “Sapevano tutti dove abitavo. Tanto che tre anni fa ho dovuto cambiar casa per via di una rapina, mentre giocavo a Udine. M’hanno svaligiato l’appartamento con dentro tutti quanti: bambini, moglie, suoceri. Un trauma, anche se di queste cose adesso non parla più nessuno. Mi suonavano di sera e portavano bollette, mi chiedevano vestiti. Tutti i mesi raccoglievo le cose regalatemi dalla Nike per darle a chi aveva bisogno. Facevo collette tra i compagni. Spendevo 30 mila euro l’anno per acquistare magliette del Palermo da dare in giro. Per non parlare dei soldi a un’associazione di Partinico, giocattoli all’ospedale Santa Cristina, contributi a cinque case famiglia. Davvero, non finiamo più. E’ per questo che mi chiedo: un errore può davvero cancellare tutto quanto?”. Infine un sogno: “La squadra dei miei sogni? Non è difficile da capire, il Lecce. Soldi? Ne abbiamo già parlato. Un accordo lo troviamo, spero. E poi faccio un gol sotto la Nord, che è il sogno della mia vita. E posso pure smettere. C’è gente ancora in attività che s’è rubata persino i pali delle porte. Dubito che possano arrivare a tanto con me. Se lo fanno? A San Donato ho dieci ettari d’ulivi. Male che vada, mi metto a zappare la terra…”.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI