28 Gennaio 2024, 07:00
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PALERMO – Alcune settimane fa a Palermo una giovane ragazza bengalese si è tolta la vita, forse per non subire un matrimonio combinato impostole dalla famiglia. Rimane, comunque, allo stato, un’ipotesi. Il triste episodio induce però alla riflessione sul tema dell’integrazione degli stranieri e sulle conseguenze della penetrazione nel tessuto sociale del nostro Paese di orientamenti culturali, principi valoriali, consuetudini e stili di vita differenti e, talvolta, antitetici.
Come gestire i problemi della multiculturalità, della differenza e della convivenza? Come affrontare la sfida dell’inclusione? Nel dibattito politico la questione relativa all’immigrazione e all’integrazione sembra ridursi alla necessità di gestire ingressi irregolari e al diritto alla permanenza o meno nel territorio. La complessità dei fenomeni migratori e le interazioni tra popolazioni diverse vengono spesso trascurate e ad essa spesso si accompagnano derive demagogiche o considerazioni umanitaristiche non sempre basate su un rigoroso approfondimento del fenomeno. L’inclusione è un processo, un percorso articolato. Da un lato, c’è l’immigrato. Chi, spesso con mezzi improbabili e denaro insufficiente, ha scelto di lasciare la propria terra per motivi economici o di conflitti; che fugge da guerra, povertà, politiche sbagliate, diseguaglianze di cui egli non è responsabile, con l’unica speranza di migliori opportunità. Dall’altro lato ci siamo noi, la società “ospitante”, che assistiamo all’ingresso nella nostra quotidianità di persone diverse da noi per lingua, tradizioni culturali, credo religioso.
Spesso accade che la condotta dell’immigrato, ispirandosi a valori, principi e consuetudini propri del Paese di appartenenza, si ponga in contrasto non solo con la nostra tradizione valoriale e culturale ma anche con norme giuridiche del nostro ordinamento, alcune delle quali di natura penale: reati in materia di lavoro, contro la libertà sessuale, comportamenti in danno di minori, reati contro la persona (spesso commessi effettuando mutilazioni di vario tipo) o contro la famiglia (tra questi, maltrattamenti, matrimoni incestuosi, poligamici o imposti). Spesso le vittime di tali reati “culturalmente orientati” sono gli stessi figli nati in Italia o giunti nel nostro Paese nei primi anni di vita, gli immigrati di seconda generazione, che non sono in grado di comprendere fino in fondo le proprie radici né di realizzare compiutamente le aspettative dei genitori.
In questi casi, sia che si segua un approccio di tipo assimilazionista “alla francese” (secondo il quale rimane priva di rilievo l’eventuale appartenenza straniera del soggetto), sia che si opti per un modello multiculturalista “all’inglese” (che promuove, invece, il mantenimento delle specificità culturali) non può negarsi che vi siano limiti invalicabili al riconoscimento delle diversità. Questi limiti coincidono essenzialmente con il rispetto dei diritti fondamentali della persona. La legge morale è unica e unico è il principio della tutela della persona umana e della sua dignità. Nessun approccio, neppure quello multiculturalista, può tollerare comportamenti che, seppure coerenti con la cultura di provenienza, incidono su diritti inviolabili, che in quanto tali vanno universalmente riconosciuti.
Si tratta, dunque, di trovare delle soluzioni che possano garantire al contempo sia il benessere di chi ospita che degli stessi migranti che spesso tristemente stazionano in una sorta di terra di mezzo. Per fare questo è necessaria la volontà di creare un ponte, di ascoltare, di capire. Di accogliere. È necessario rivedere le politiche sociali in modo che queste educhino all’interculturalità e al rispetto del diverso. La diversità è ricchezza. I processi migratori mescolano i popoli, intrecciano i vocabolari, rimodulano le mentalità. Deve essere dovere delle istituzioni favorire le condizioni perché tutti possano rapportarsi in maniera positiva nel contesto in cui vivono, creando occasioni di contatto tra le diverse culture in una prospettiva di condivisione e di partecipazione. Ma deve essere chiaro che i migranti hanno il dovere, il preciso dovere, di rispettare le leggi della società che li accoglie e con esse il tessuto di storie, esperienze e valori da cui le norme prendono le mosse.
Una condizione questa per assicurare la loro effettiva partecipazione alla vita economica e sociale nella quale gli individui esercitano i propri diritti a prescindere se siano cittadini italiani oppure migranti, rifugiati, clandestini o richiedenti asilo. È indispensabile al contempo mutare il modo di approcciarsi al diverso, allo straniero; sradicare il preconcetto dell’immigrato in condizione di inferiorità o utile solo perché disposto a fare mestieri degradanti o faticosi che gli italiani non sono più disposti a fare. Perché questo davvero ha come unico effetto quello di condannarlo definitivamente alla inferiorità socio-culturale.
Il tema della transumanza umana probabilmente non tramonterà mai. Ogni epoca porta con sé una nuova forma di migrazione verso una terra promessa. Che essa sia New York, come per il Giobbe di Roth o la California per i contadini di Steinbeck. Lo stesso popolo siciliano è storicamente un popolo di emigranti e la nostra terra è fulgido esempio di integrazione di persone provenienti da culture e tradizioni differenti. È dovere di ciascuno fare in modo che la terra promessa sia davvero in grado di mantenerla la promessa, accogliendo chi ha avuto la sorte di nascere dalla parte sbagliata del globo. Nell’attesa, chissà, del ritorno nella propria Itaca.
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28 Gennaio 2024, 07:00