17 Gennaio 2018, 16:04
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PALERMO – Fra inchieste e processi, richieste di archiviazione e indagini “imposte” di Mario Mori la magistratura si occupa da vent’anni.
Il covo di Riina
In principio fu la mancata perquisizione della villa di via Bernini, ultima residenza di Totò Riina. Il padrino corleonese viene arrestato il 15 gennaio ’93. I carabinieri del Ros guidati dal capitano Sergio De Caprio, Ultimo – anche lui finirà sotto processo -, lo fermano in macchina con l’uomo che gli fa da autista. I carabinieri ritengono che la perquisizione del covo possa compromettere ulteriori indagini. L’operazione è sospesa. Il 30 gennaio la Procura scopre che l’osservazione della villa è stata interrotta il pomeriggio stesso dell’arresto. I militari fanno irruzione nella villa il 2 febbraio, ma è già stata ripulita. Nel 1997 la procura di Palermo apre un’inchiesta a carico di ignoti per sottrazione di documenti e favoreggiamento.
Nel 2002 sono gli stessi pubblici ministeri a chiedere di chiudere il caso con l’archiviazione. Il gip la respinge: bisogna continuare a indagare. Nel marzo del 2004, gli “ignoti” vengono identificati in Mori, nel frattempo divenuto capo del Sisde, che nel ’93 era il vicecomandante del Ros, e De Caprio, L’ipotesi di reato è favoreggiamento. Arriva, però, una seconda richiesta di archiviazione da parte dei pm Antonio Ingroia e Michele Prestipino. Il gip, però, impone l’imputazione coatta per i due indagati. Si va a processo. Mori e Ultimo vengono rinviati a giudizio nel febbraio del 2005. Un anno dopo, nel 2006, il Tribunale presieduto da Raimondo Lo Forti li assolve con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.
Nelle motivazioni scriveranno che “l’opzione investigativa (quella di non perquisire il covo, ndr) comportava un rischio che l’autorità giudiziaria (il capo dei pm era Gian Carlo Caselli, ndr) scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria (i carabinieri del Ros, ndr), direttamente operativi sul campo”. Ed ancora: “L’autorità giudiziaria, nell’eccezionalità dell’evento che vedeva in stato di arresto il capo della struttura mafiosa e che poteva costituire un’occasione unica ed irripetibile di assestare un colpo forse decisivo all’ente criminale, operò una scelta anch’essa di eccezione, nell’ambito della propria insindacabile discrezionalità”.
In quelle stesse motivazioni veniva respinta l’ipotesi a cui, nel frattempo, si lavorava e cioè che Totò Riina fosse stato “venduto” da Bernardo Provenzano nell’ambito di un’ignobile trattativa. “È accertato come Riina non fu consegnato dai suoi sodali – scrivevano i giudici -, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del capitano De Caprio”. La Procura non ha appellato la sentenza di assoluzione che è divenuta definitiva.
Provenzano a Mezzojuso
Anche la storia del processo per la mancata cattura di Provenzano è stata piuttosto tormentata. Alla fine Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti dal favoreggiamento aggravato a Cosa nostra con sentenza ormai definitiva. Un processo che muove i primi passi nel 2008, quando il giudice per le indagini preliminari impose un procedimento che all’inizio la Procura non voleva celebrare. Mori e Obinu erano accusati di avere fatto saltare il blitz di Mezzojuso dove, secondo la Procura, si sarebbe potuto catturare Bernardo Provenzano già il 31 ottobre 1995. E cioè undici anni prima che lo scovassero a Montagna dei cavalli, nella sua Corleone.
Mori e gli altri alti ufficiali del Ros hanno sempre replicato sostenendo che mai il colonnello Michele Riccio, l’ufficiale che raccolse le confidenze dell’infiltrato Ligi Ilardo (ucciso nel 1996, ndr), aveva parlato della presenza di Provenzano nel covo in termini di certezza. Di parere opposto i pubblici ministeri secondo cui, i due imputati non avrebbero sviluppato le piste di indagine che avrebbero potuto consentire l’arresto del superboss anche successivamente.
Nel 2007 la stessa Procura (pm Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo) chiese l’archiviazione, ritenendo che mancasse la volontà di Mori, Obinu e del capo del Ros, il generale Antonio Subranni (poi, uscito dalle indagini) di fare scappare Provenzano. Il gip Maria Pino ordinò nuove indagini, usando parole dure per carabinieri. Il 4 gennaio 2008 le nuove indagini si conclusero con un nuovo capo di imputazione: non solo Mori e Obinu non avrebbero attivato l’adeguato servizio a Mezzojuso, ma nulla fecero successivamente “nonostante Ilardo avesse confermato l’abitualità dell’utilizzo di quei luoghi per riunioni cui partecipava il latitante”. Ed ancora: non si verificò la presenza di Provenzano in quella parte della provincia palermitana, né si indagò sulle persone (Giovanni Napoli e Nicolò La Barbera) indicate da Ilardo come l’anello di congiunzione tra Provenzano e gli altri capimafia. In più la notizia del mancato blitz fu comunicata solo nove mesi dopo, e quando ormai Ilardo era stato ammazzato.
Il 14 aprile 2008 arrivò il rinvio a giudizio di Mori e Obinu per favoreggiamento aggravato deciso dal gup Mario Conte. Il 17 luglio il Tribunale presieduto da Mario Fontana assolse i due imputati perché “il fatto non costituisce reato”, nonostante i pm coordinati da Vittorio Teresim, nel frattempo subentrato a Ingroia, chiedessero una condanna 9 anni per Mori e a sei anni e mezzo per Obinu. Il processo si era trasformato in un’anticipazione, per altro sostanziosa e sostanziale, di un altro dibattimento, quello sulla trattativa Stato-mafia. La mancata cattura del padrino corleonese sarebbe stata una tappa del presunto e scellerato patto prima, durante e dopo la stagione delle stragi del ’92. Secondo i pm, Mori e Obinu erano “servitori infedeli dello Stato”, traditori della Costituzione e dell’Arma dei carabinieri.
Nel gennaio 2014 la Procura generale appellò l’assoluzione, sostenendo che si fosse di fronte ad errori metodologici”, sovvertimento delle più “elementari regole” di redazione di una sentenza penale, “fiera demolizione” dell’attendibilità di un teste. Una durezza quella del sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio in scia con l’atto d’appello già presentato dal pubblico ministero di primo grado Di Matteo, la cui richiesta di applicazione anche in appello fu respinta dal procuratore generale Roberto Scarpinato.
Il sostituto procuratore generale Luigi Patronaggio parlò di “ennesima caduta di professionalità degli imputati che hanno ottenuto, al di là di ogni prassi e logica militare, inaudite promozioni”. Il riferimento era a Mori che, dopo quel 1995, sarebbe divenuto prima generale, poi prefetto e infine direttore del Sisde. Nell’atto d’appello Patronaggio parlava anche di “contraddittorietà e illogicità della motivazione” con cui Mori e Obinu erano stati assolti dal collegio presieduto da Mario Fontana. La quarta sezione del Tribunale, “lungi dall’esaminare le prove articolate a dimostrare l’esistenza dell’elemento materiale del reato di favoreggiamento personale contestato agli imputati ha viceversa speso ben 853 pagine su un totale di 1318 per confutare l’esistenza della trattativa Stato-mafia”. Ed è qui che il Tribunale avrebbe sovvertito “elementari regole” visto che innanzitutto avrebbe dovuto accertare “l’esistenza dell’elemento materiale del reato”. “Il Tribunale – scriveva Patronaggio – ha ridotto questo processo ad un processo fortemente indiziario… non si spiega altrimenti la fiera opera di demolizione del teste Riccio… appare fin troppo evidente che – proseguiva – cercare di provare la responsabilità degli imputati attraverso la prova certa dell’esistenza della Trattativa, oggetto per altro di un altro processo, è impresa ardua oltre che errata da un punto di vista logico-giuridico”. Alla fine arrivò una richiesta di condanna è 4 anni e mezzo per Mario Mori e 3 anni e mezzo per Mauro Obinu. Praticamente la metà di quanti ne furono chiesti nel processo di primo grado: non importa sapere perché i due imputati avrebbero favorito Provenzano, ma basta accertare l’esistenza del reato. La Procura generale ha cambiato strategia, rinunciando a contestare ai due imputati l’aggravante mafiosa e quella della trattativa. Restava in piedi solo quella per avere commesso il reato ricoprendo la qualifica di pubblico ufficiale”. Il risultato non è cambiato: Mori e Obinu sono stati assolti.
La Trattativa
Gli “impegni” giudiziari per Mori non sono finiti, visto che è fra gli imputati del processo sulla trattativa Stato-mafia in corso a Palermo. L’indagine sul patto fra i boss e i rappresentanti delle istituzioni, mediato da Mori, approda alla fase processuale nel luglio del 2012 quando gli atti – 120 faldoni – vengono trasmessi dalla Procura al giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini. Il rinvio a giudizio dei dieci imputati fu deciso il 7 marzo 2013. Ne avranno ancora per un po’. I pubblici ministeri (Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Antonio Di Matteo, Roberto Tartaglia) hanno iniziato la requisitoria. Entro l’estate ci sarà la sentenza.
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