02 Novembre 2017, 14:00
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Nel giorno dei nostri morti, da bambini, era dolce recarsi al cimitero – o forse lo sembra adesso, per via della misericordiosa distanza – e recitare la preghiera sulla tomba del nonno che dormiva tra i fiori appena cambiati; innaffiare gambi e corolle come in una involontaria metafora della resurrezione – l’acqua che provoca la rifioritura -; tornare a casa per scartare i regali che gli antenati defunti, nella loro magnanimità, non visti, avevano deposto.
E c’è ancora un lutto che ha il tono caldo dell’infanzia o della prima giovinezza. E ci sono ancora lacrime tiepide che contemplano un riflesso del cielo, non la solitudine di una stanza buia, senza nemmeno sapere se il cielo esista. E c’è ancora una morte lontana, di nonni amati, che ha il sapore dei biscotti, che si sbriciola in bocca, che non fa troppo male. I nonni, prima o poi, muoiono in pace.
Ma a quale Dio puoi rivolgerti, se la giovinezza è stata cancellata negli occhi di un figlio? Che preghiera potrà difenderti, se sei tu il padre o la madre?
Ora Nino, che è stato figlio e non sarà mai padre, riposa in uno stormo di farfalle colorate, dentro la sua foto, su un ripiano, nella casa di Salvo e di Patrizia che lo misero felicemente al mondo. Le farfalle sono oggettini variopinti che vegliano il sonno eterno di un ragazzo di appena vent’anni. Antonino Alioto – rievoca la fredda pagina della cronaca – morì in un incidente stradale sulla Palermo-Sciacca. Amava il mare della sua Porticello, i tuffi e il sole. Questo è il breve e durevole resoconto del dolore più grande che c’è, forse la storia più cruda e più vera da raccontare, il due novembre, nel giorno dei nostri cari defunti.
Papà e mamma tengono l’esatta contabilità di un nero infinito. “Mio figlio – dice Salvo – manca alla sua famiglia da quattro anni, nove mesi e ventuno giorni. Noi non dormiamo più. Non cuciniamo più. Non respiriamo più”. “L’incidente che ha cambiato tutto – dice Patrizia – è avvenuto al chilometro quarantotto e otto, nei pressi di Camporeale”. Nino, che avrebbe compiuto ventun anni, che lavorava nella pescheria di famiglia, finì in una scarpata, con il suo camion-frigo.
Salvo e Patrizia, ogni mese, si recano in pellegrinaggio sul luogo, per appoggiare un mazzo di fiori. Hanno sistemato un altro ritratto del ragazzo, in soggiorno, ricoperto di firme, come se fossero ali di complemento. E non c’è azzurro e non c’è Ave Maria che dia sollievo al bruciore.
“Io solo questo vorrei – sussurra Salvo – che Nino entrasse dalla porta, come accadeva sempre e che mi accarezzasse la guancia e che mi dicesse: ‘Papà sono qui, non preoccuparti’. Mi basterebbe abbracciarlo un’altra volta. E, forse, riuscirei a dormire”. Ma nell’esperienza di tutti i cimiteri e di tutti gli altari del ricordo, non è previsto un biglietto di ritorno, dopo il commiato. L’esistenza troncata ha il clic di uno scatto senza ripensamenti; ti fotografa nell’attimo che diventa sempre.
“Senti dentro un male che ti logora, che ti uccide senza ucciderti – interviene Patrizia -. Qualcuno, con le migliori intenzioni di consolarti, magari dice: capisco quello che stai passando. Ma non è così. Non c’è niente come perdere un figlio. E io mi auguro che nessuno debba più capirlo suo malgrado”.
Sono persone tenaci, Salvo e Patrizia. Formano una coppia cucita da un legame profondissimo. La memoria ha stretto la cucitura. Hanno accettato di parlare della morsa che li soffoca per offrire una testimonianza. Perché altri genitori che ne condividono la strada possano trarre conforto dal loro coraggio.
“Mio figlio era tutto per noi, riempiva ogni angolo, ogni fessura – dice Patrizia -. E scontare la sua assenza è una prova disumana. Prego che un’altra mamma non debba piangere come sto piangendo io. Noi andiamo avanti per lui. Dobbiamo andare avanti”. E sull’ultimo sguardo, i biscotti, i nonni, i doni dei defunti, l’attesa notturna del mattino per i regali, le corse di stanza in stanza per trovarli, i fiori al cimitero, l’acqua fresca, la foto sorridente sulla lapide: ogni consolazione si dissolve.
Nino che era ogni passaggio, ogni respiro, perché così è un figlio. Nino che riposa tra le farfalle, con la promessa delle ali. Il nero infinito non stinge. Eppure, oggi, che è due novembre, nel tempo delle lacrime e dei ricongiungimenti, non viene nemmeno difficile immaginarlo quel volo e perdersi nella fantasticheria davanti al mare di Porticello. Non è impossibile sognarlo questo ragazzo amatissimo, in forma di farfalla, in qualche posto che sa di azzurro, leggero e carico di tutto l’amore di quaggiù
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02 Novembre 2017, 14:00