Quello “sbirro” da strada |e la cattura di Santapaola

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20 Marzo 2013, 16:34

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PALERMO – Antonio Manganelli era uno sbirro. E questo è un complimento, come sanno bene i poliziotti che hanno lavorato in terre di mafia. Uno sbirro vero, con il senso acuto dell’investigatore, il taglio disincantato del poliziotto che ne ha viste tante, ma senza mai scadere nel cinismo o nell’indifferenza. Era uno sbirro con il sorriso aperto, capace di emozioni, di sentimenti autentici, di partecipazione umana. Era arrivato alla poltrona più alta e spinosa, quella di capo della polizia, ma non aveva mai perduto l’autoironia, il gusto per la battuta, il piacere di seguire da vicino un’indagine, il fiuto per individuare il dettaglio utile a risolvere un caso. Non era mai stato un burocrate, ma un poliziotto da strada.
Ci eravamo conosciuti nel gennaio del 1992, quando a Lamezia Terme seguiva le indagini per l’omicidio di Salvatore Aversa, il poliziotto ucciso assieme alla moglie, in un agguato di ‘ndrangheta, nel corso principale della città calabrese. Con altri giornalisti eravamo nello stesso hotel, l’unico di Lamezia Terme, quando in piena notte arrivò l’allarme che c’erano strani movimenti alla periferia della città. Antonio Manganelli partì di corsa assieme al suo collega Alessandro Pansa, e noi giornalisti dietro, tentando di non perdere le tracce dell’auto della polizia che attraversava la notte calabrese. La segnalazione si rivelò un falso allarme, anche se restavano le tracce di alcuni proiettili sparati contro una saracinesca.
Il resto di quella notte passò nella hall dell’albergo, con quei quattro giornalisti e Manganelli a fare ipotesi sull’omicidio, su quello che significava, sulle piste possibili. Conversazioni off record, naturalmente, che nessuno avrebbe riportato sulle pagine dei giornali. Ma già allora colpiva la determinazione di quel poliziotto dalla faccia simpatica, l’accento avellinese, l’intelligenza sveglia, il mestiere sulle punta delle dita. Ma senza boria, senza presunzione, capace di ascoltare anche le ipotesi più strampalate che avanzavamo noi giornalisti, forse ritenendo che a volte un’intuizione può arrivare anche dalle parti più disparate.
Manganelli rappresentava la nuova generazione di poliziotti cresciuti con Gianni De Gennaro: democratici, abili nel rapporto con i media, disinvolti nelle relazioni pubbliche, sufficientemente colti per poter parlare anche di libri e di cinema, attenti alle dinamiche sociali. Una generazione che stava spazzando via la vecchia guardia degli sbirri in doppiopetto, polverosi e fuori moda anche nel modo di vestire. Anzi, questa nuova generazione si distingueva per certi vezzi nei colori delle cravatte, nel taglio degli abiti, nelle tonalità delle camicie.
Da allora molte altre volte la mia strada di cronista ha incrociato quella di Antonio Manganelli. Era uno di quelli che guidavano le indagini più scottanti sulle mafie. E per chi si occupava di queste cose era ineluttabile trovarsi di fronte Manganelli. All’alba del 18 maggio 1993 il mio telefono squillò alle cinque del mattino: nel giro di mezz’ora Manganelli tirò giù dal letto tutti i cronisti che seguivano le cose di mafia. Aveva una notizia da prima pagina: poco prima aveva guidato il blitz che aveva portato all’arresto del boss catanese Nitto Santapaola nelle campagne di Mazzarrone. Operazione “Luna piena”, perché il capomafia, nelle intercettazioni dei suoi fedelissimi, era stato ribattezzato “u licantropo”. Assonnati e storditi, tutti i cronisti ci ritrovammo alle dieci del mattino nella questura di Catania dove Manganelli, dopo la conferenza stampa con i dettagli della cattura, continuò a prenderci in giro per le nostre facce sbattute dal sonno per colpa della sveglia che aveva fatto risuonare nelle nostre case.
Dalla strada ai palazzi la strada fu veloce. Il vertice del Servizio centrale operativo, la questura di Palermo, poi quella di Napoli, la direzione della polizia criminale e via via fino alla poltrona di capo della polizia. A maggio scorso lo avevo incontrato a Brindisi, dopo la bomba fatta esplodere davanti alla scuola Morvillo che aveva ucciso una ragazza. Concluso il momento inevitabile dei vertici, dei summit, dei convenevoli di rito, Manganelli si appartò con alcuni giornalisti: gli piaceva ascoltare cosa si diceva in giro, conoscere gli umori che i cronisti riuscivano a cogliere, i retroscena giudiziari. Ma scalpitava: voleva tornare in fretta a Roma, convocare i migliori poliziotti italiani e far partire le indagini per arrivare all’arresto dei responsabili. Sentiva l’adrenalina dell’indagine. Sapeva che sono le prime ore dopo il fatto quelle decisive per risolvere un caso.
Stava meglio, le cure contro il tumore sembravano avere avuto risultati. Erano ricresciuti i capelli, diceva a tutti che non li avrebbe tagliati mai più. Meno di un mese fa il ricovero improvviso, l’intervento, la sedazione, il coma. Sua moglie Adriana incrociava le dita, con il suo sorriso forte anche nei momenti peggiori: vediamo cosa succede al risveglio. Aspettiamo. Speriamo. Non ce l’ha fatta. Ma è morto in piedi, dopo aver combattuto anche contro la malattia. Per farlo fuori, l’edema cerebrale che lo ha stroncato ha dovuto sorprenderlo alle spalle, a tradimento, senza dargli il tempo di voltarsi. Altrimenti Antonio Manganelli non si sarebbe fatto fregare. Era troppo sbirro per farsi fregare.

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20 Marzo 2013, 16:34

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