18 Luglio 2012, 09:47
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Che cos’è la legalità? Ce ne sono almeno due declinazioni, due forme. La prima si vende. La seconda si respira. La legalità del mercato è un prodotto. E’ il trucco che copre ogni guancia a richiesta. Entri in uno dei centri abilitati allo smercio, cammini tra gli scaffali. Mi dà dieci chili di legalità? Prego. La incarti e la porti via. Non resta niente. Non impari nulla. Non ti serve un cambiamento. Ti occorre un vestito da mostrare alla festa.
La legalità della sostanza, invece, prevede una coerenza inattaccabile, senza sconti né compromessi. Se la indossi, non puoi toglierla più. L’abito si incarna nell’essenza del portatore di legalità e diventa la sua ragione di vita. E’ una scelta che non ama fanatismi e cinismo.
Noi portiamo la nostra idea, il nostro sentimento di legalità a Castelvetrano, nella terra di Matteo Messina Denaro. Non c’è nessun eroismo. Nessuna aureola è dovuta ai giornalisti che fanno il loro mestiere, che usano le parole. E tante saranno le parole da dire e da ascoltare nel Festival della Legalità di Marinella di Selinunte, di cui potere leggere il programma in un’altra parte del giornale. Eppure, sappiamo che appena qualche anno fa una scommessa del genere sarebbe stata irrealizzabile. Chi avrebbe avuto il coraggio di andare a bussare sulla porta della casa del boss per narrare la buona novella di un cambiamento possibile? Chi si sarebbe inerpicato fino alla sua roccaforte che mostra segni di redenzione freschi, accanto a riti tribali di silenzio e omertà?
Non nascondiamoci dietro a un dito: se un capomafia diventa la primula rossa, significa che è protetto dal suo territorio. Il nostro viaggio nella penombra trapanese che vive nella leggenda nera dell’ultimo imprendibile non è un gesto di coraggio assoluto, ma forse è il sintomo di qualcosa che si muove, perché noi desideriamo che sia così. Ed è un desiderio fortissimo alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio, inquinata da conflitti e polemiche fuori luogo. E’ l’ora giusta per lasciare spazio alla coscienza critica e all’amore che nutriamo per il giudice Borsellino, per coloro che morirono con lui, per quelli che vivono nel suo solco. E’ il momento di guardare i suoi occhi, gli occhi di Paolo, ancora una volta. E trarne insegnamento.
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18 Luglio 2012, 09:47