18 Novembre 2017, 06:00
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I giornalisti coraggiosi che giorno dopo giorno vi descrivono una mafia potente e invincibile vorrebbero che non lo dicessimo. Vorrebbero ridurci al silenzio, con le buone e con le cattive, anche quelle confraternite conventicolari che giorno dopo giorno vi raccontano il romanzo nero dei mandanti occulti, dei servizi deviati, delle trame oscure; e che fantasticando di uno Stato complice dietro le stragi del ’92 vorrebbero farvi credere che solo il giudice Nino Di Matteo, candidato dai grillini a un incarico di governo, potrà svelare un giorno, grazie al suo zelo e al suo incontaminato candore, le immonde verità nascoste sotto il sangue versato da Giovanni Falcone, da Paolo Borsellino e dai loro uomini di scorta. Invece le cose da dire vanno subito dette. A cominciare dal fatto che ieri notte, alle 3:37, quando in un carcere di massima sicurezza è spirato Totò Riina, sanguinario boss dei corleonesi, è morta non solo la mafia stragista – quella che con il tritolo voleva condizionare la vita della repubblica e la libertà di tutti noi; ma è morta anche l’antimafia delle imposture – quella che ha costruito la boiata pazzesca della Trattativa e che, su quel teorema, ha affilato ogni arma per mettere alla gogna i propri avversari politici e acquisire meriti per future carriere, per future investiture.
L’ultimo rigurgito, come ricorderete, risale a poche settimane fa. Si era alla vigilia delle elezioni in Sicilia e la confraternita degli incappucciati – di quelli cioè che grufolano nei sottoscala delle procure, sperando sempre di trovare una cartuzza buona per sputtanare qualcuno – già pregustavano nuovi giorni di gloria perché, sbobinate le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano, detenuto nel carcere duro di Ascoli Piceno, era riapparso nei cieli alti del mascariamento il nome brillante e seducente di Silvio Berlusconi, da oltre vent’anni bersaglio immobile di quella filiera giudiziaria per la quale l’unica soluzione possibile per i problemi dell’Italia è un governo dei giudici. Ma l’assalto all’ex premier si è rivelato nient’altro che una Caporetto: chiamato a testimoniare nel processo che si celebra nell’aula bunker dell’Ucciardone, il boss che nel cortile del carcere aveva smozzicato il nome di Berlusconi si è avvalso della facoltà di non rispondere; e quando dalla procura di Firenze è trapelata, con cronometrico tempismo, la notizia dell’avviso di garanzia notificato al leader di Forza Italia – bollato, va da sé, come mandante occulto delle stragi – i titoli dei giornali, per la verità molto modesti, non hanno sortito l’effetto devastante che lo scoop avrebbe meritato, almeno nelle intenzioni di chi lo aveva architettato. Le elezioni siciliane, per Berlusconi, sono andate benissimo. Stavolta la macchina del mascariamento non ha funzionato. Segno che all’antimafia delle confraternite e dei giudici onnipotenti ormai non crede più nessuno.
La morte di Riina non potrà che accelerare la disfatta. Con il fallimento dell’ultimo assalto al fortino dell’odiatissimo Cavaliere eravamo al crepuscolo. Con la scomparsa del capo dei capi il tramonto del giustizialismo, condotto in nome di una titanica lotta a Cosa nostra, sarà pressoché inesorabile.
A Riina, che pure dal 1993 era seppellito con tutti i suoi gregari dietro le doppie sbarre di un carcere di massima sicurezza, impietoso e invalicabile, l’antimafia delle trame infinite continuava ad attribuire ogni nefandezza. Se un magistrato di Palermo voleva ad esempio guadagnarsi le prime pagine dei giornali come un venerato eroe della legalità e dell’intransigenza, si inventava la revisione di un qualunque processo nel quale, puntualmente, Riina diventava il principale imputato. Giorni e giorni di udienze, giorni di tribune mediatiche, giorni di interviste e di talk-show. Poi arrivava la sentenza d’assoluzione e si ricominciava da capo, altro giro altra corsa.
Chiusa la stagione spettacolare dei processi inutili (e anche costosi, ma guai a parlarne) l’antimafia degli intrepidi, sempre alla ricerca delle verità indicibili e sommerse, ha dato il via a una nuova tecnica investigativa: l’intercettazione ambientale dei boss detenuti, sorpresi dagli astuti investigatori a discutere nel cortile del carcere durante l’ora d’aria. La scena è questa: il mafioso chiacchiera con un altro malacarne, suo compagno di detenzione, ben addestrato nell’arte provocatoria, ma non sa che tutto intorno centinaia di cimici stanno registrando ogni sua confidenza, ogni suo sussurro, ogni suo inconfessabile proposito di vendetta.
La serie, manco a dirlo, si è aperta proprio con Totò Riina, il regista di tutte le stragi, il boss che voleva piegare i giudici alla sua legge, che voleva cancellare le sentenze della Cassazione, che voleva intimidire lo Stato. Era murato vivo nel carcere di Opera, a Milano. Ed è lì che i magistrati antimafia hanno catturato per quasi un anno tutti i suoi discorsi, tutte le sue parole, comprese le farneticazioni e le inevitabili minchiate.
Ne è venuto fuori un brogliaccio clamoroso di cose dette e non dette, di allusioni e insinuazioni, di minacce e intimidazioni. Parole e parolacce per tutti e contro tutti: per i picciottazzi che si pentirono e lo tradirono, come Giovanni Brusca o Salvatore Cancemi; e per i magistrati, come Di Matteo, che “si mette là davanti, mi guarda con gli occhi puntati ma a me non mi intimorisce: e allora organizziamola questa cosa, facciamola grossa e non ne parliamo più”.
Ma, al di la di queste sparate lugubri e invereconde, è venuto fuori soprattutto il ritratto di un Riina rancoroso e irruento, con gli occhi e la testa rivolti sempre all’indietro, agli anni nefasti dell’ultima guerra di mafia quando i “viddani” di Corleone, con i loro piedi incretati e i kalashnikov nascosti sotto lo scapolare, cominciarono a sterminare i boss che regnavano incontrastati su Palermo – da Giovanni Bontade, detto “il principino”, a Peppe Di Cristina, da Totuccio Inzerillo alla stirpe dei Galatolo – e lentamente si impadronirono di tutte le leve di comando; di quelle leve che macinavano potere e miliardi, dagli appalti alla droga.
E’ stata una confessione lunga, anche se a trattati confusa o incomprensibile, quella che le spie piazzate nel carcere di Opera strapparono a Totò Riina, detto ’u curtu. Una confessione che, nonostante l’impegno di un gruppo di investigatori particolarmente attenti al linguaggio limaccioso dei mafiosi, non rivelò nessun’altra verità se non quella già acclarata dai processi e scolpita nelle ventisei sentenze che hanno condannato all’ergastolo non solo Riina ma anche i suoi colonnelli, primo fra tutti quel Leoluca Bagarella che rimane ormai uno dei pochi sopravvissuti alla catastrofe. Perché – piaccia o no alle confraternite dell’antimafia chiodata – è venuto il momento di dire e di ribadire che, dopo tante lotte e tanto sangue sparso sulle angustiate terre di Sicilia, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. E che il mito di una Cosa nostra potente e invincibile serve ormai, quasi esclusivamente, a mantenere in vita quegli apparati, a cominciare dalla pomposa e inutile Commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi, messi in piedi negli anni della mattanza quando l’unico obbiettivo di Falcone e Borsellino, ma anche di tanti altri onesti investigatori e magistrati, era quello di trovare comunque una via di uscita, un modo spiccio e immediato per agguantare i boss e spezzare finalmente la catena dei delitti.
Questo non significa, sia chiaro, che con la scomparsa di Riina si possa considerare morta anche la mafia, quella gramigna malefica che da sempre opprime e dissangua la Sicilia. Ma bisogna anche considerare il fatto che gli ultimi arresti di Palermo e le analisi condotte dalle procure più attente e responsabili ci dicono una sola cosa: che la mafia c’è ed è ancora viva e vegeta; ma è un’altra mafia.
Diciamolo, piaccia o no a quelli che ancora ne coltivano il mito: non c’è più la mafia organizzata in maniera piramidale, con i membri della commissione che eleggevano la cupola e con un patriarca, come Michele Greco re di Ciaculli, che diventava l’onnipotente Papa del malaffare e di tutte le criminalità riunite. Non c’è più la ripartizione protocollare delle competenze e delle influenze come c’era ai tempi di Angelo Siino che prima di saltare il fosso e pentirsi era stato addirittura “ministro” dei Lavori pubblici in nome e per conto di Totò Riina. Non c’è più il “mandamento” secondo lo schema territoriale descritto da Tommaso Buscetta, il pentito che con le sue rivelazioni, ruppe la diga dell’omertà e portò oltre quattrocento boss nell’aula del maxi processo. Non c’è più insomma la mafia dei centonovanta omicidi all’anno nella sola Palermo: quelle bande e quei clan sono stati rasi al suolo dallo Stato, a quel tempo personificato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due giudici che hanno pagato con la vita il loro impegno nella società e nelle istituzioni.
La mafia che Riina, morendo, lascia invece in eredità è un’organizzazione sfilacciata, che si muove soprattutto nelle periferie e che trova persino difficoltà a controllare i vecchi mandamenti perché c’è sempre un vecchio boss che, da un momento all’altro, potrebbe uscire da galera e riprendere i fili del racket. E’ una mafia spicciola ma tentacolare, con gerarchie mutabili e spesso indistinte, che raccoglie tutto quello che può raccogliere, dalla guardianìa alla estorsione. Anche il pizzo di duecento euro al mese. Ed è per questo forse che i più disincantati cominciano a chiamarla “la mafia dei muzzunara”, alludendo così al rito miserabile dei poveracci che un tempo, non avendo la possibilità di acquistare le sigarette, raccoglievano da terra i “muzzuna”, cioè le cicche.
Una sottovalutazione certamente eccessiva, ammettiamolo. Contro la quale, ed è persino ovvio, cominciano a mobilitarsi i puri e duri dell’antimafia militante per quali non si può nemmeno ipotizzare un adeguamento degli apparati investigativi alle nuove dimensioni e alla nuova stratificazione che il fenomeno presenta. “Guai ad abbassare la tensione”, sermoneggiano nei rari cortei che si vedono in giro. E così sermoneggiando avviano inchieste e contro inchieste per dimostrare che, dopo la morte di Riina e la scarcerazione dei tanti boss che hanno già scontato la pena, si aprirà l’immancabile guerra di successione; e che dopo la guerra – contati i morti e i feriti, i caduti e i risuscitati – si ricostituiranno cupole e mandamenti.
Un modo come un altro per perpetuare l’emergenza, per rinominare dopo le elezioni una nuova Commissione antimafia e per affermare il principio in base al quale ci salveremo solo se la politica si farà da parte consegnando il potere nelle mani di magistrati indomiti e indomabili. Come Piercamillo Davigo, come Nino Di Matteo.
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18 Novembre 2017, 06:00