17 Luglio 2014, 05:58
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CATANIA – Niculitto si curava dei suoi ragazzi. Non scappava nemmeno in presenza dei carabinieri. Anzi. Quando era necessario chiedeva anche spiegazioni sul perchè i militari stavano mettendo le manette ai suoi “carusi”. Il carattere protettivo e sfrontato di Francesco Scuderi viene fuori dall’atteggiamento tenuto dall’uomo, finito dietro le sbarre nell’ambito del blitz Lava, nel corso di alcuni arresti eseguiti dalla compagnia di piazza Dante nel 2012. I carabinieri arrestavano alcune persone con l’accusa di detenzione di cocaina e mariujana: in quella occasione i due militari in servizio furono avvicinati da Scuderi in persona che “in dialetto tipicamente catanese” si informava su “cosa avessero fatto i suoi ragazzi” e, poi, con tono “quasi paternale” chiedeva ai militari che “i suoi ragazzi venissero trattati bene“. Durante il fermo di tre persone, una folla si era radunata davanti alla Caserma di Piazza Dante. E’ stato Scuderi, arrivato per sapere quali sarebbero stati i reati contestati, a “parlare con chi era presente in strada. Nell’arco di pochi minuti le persone, circa una trentina, prima in clima di protesta, si allontanavano quasi come se gli fosse stato impartito un ordine”. Insomma Niculitto era il capo ed era riconosciuto come tale non solo dall’organizzazione, disarticolata dai carabinieri nella retata dello scorso primo luglio, ma dal quartiere.
Il collaboratore di giustizia Goffredo Di Maggio, appartenente alla famiglia Nizza, fornisce agli inquirenti altri particolari e spunti investigativi sull’organizzazione criminale che avrebbe ai vertici proprio Francesco Scuderi: “Era il referente della piazza di spaccio di via del Principe – si legge nei verbali .- intendo dire che Niculitto gestiva la piazza, prendeva i soldi e dava la droga a coloro che la dovevano spacciare; si occupava inoltre del confezionamento della droga”. Di Maggio parlando invece di Antonino Scuderi, afferma che “il fratello di Niculitto aveva principalmente il ruolo di controllare la piazza per evitare l’intervento delle forze del’ordine svolgendo un ruolo di sentinella”. Francesco Scuderi, va ricordato è genero di Turi Amato, storico appartanente al clan Santapaola, reggente di uno dei gruppi cittadini più importanti, quello degli Ottantapalmi e sposato con Grazia Santapoala, cugina del capomafia Nitto Santapaola). Il collaboratore ha aggiunto di aver saputo dallo stesso Scuderi “che i proventi dell’attività di spaccio della sua piazza, in parte, erano destinati al mantenimento in carcere del suocero Turi Amato e del cognato Alfio Amato” e che “la droga alla piazza di spaccio di Niculitto era fornita dai fratelli Daniele e Fabrizio Nizza”.
Interessanti nel riconoscimento del ruolo apicale di Niculitto alcune intercettazioni ambientali che sono state effettuate su strada con grande guizzo investigativo dai Carabinieri, diretti dal comandante provinciale Alessandro Casarsa, all’angolo tra via della Lava e via Trovatelli di Catania tra il 16 e il 21 gennaio 2013. Scuderi impartiva ordini anche alle vedette. In una conversazione “essendosi accorto del sopraggiungere di una pattuglia dei carabinieri, dava disposizioni alle vedette”. “Sono saliti dalla via Playa, Luca Toni, il tenente e il vecchio (modi per identificare i carabinieri di Piazza Dante ndr)” avvertiva Scuderi e stabiliva le nuove posizioni: “Uno alla via Fenga, uno alla via Fenga“.
Si lamentava Niculitto dei continui controlli di polizia giudiziaria. Per bloccare le ispezioni, addirittura, pensava che lui fosse “l’unico che poteva gestire i rapporti con le forze dell’ordine”. A Filippo Marino, indicato dagli inquirenti come sua persona di fiducia, lanciava un avvertimento: “Appena direttamente viene a fare una fangata qua, prima lo ammazzo di botte e poi glielo dico al suo superiore“.
Niculitto con i suoi sodali aveva messo su una vera e propria azienda dello spaccio: con manager e operai. Turni di lavoro precisi, mancava solo il timbro del cartellino. L’organigramma “societario” si divideva per fasce. “In posizione apicale c’è Francesco Scuderi (al fratello Antonio il Gip non ha riconosciuto l’aggravante di capo promotore), affiancato come braccio operativo i fratelli Vito e Carmelo Musumeci, “responsabili della piazza di spaccio e con funzioni di controlli e coordinamento di tutti gli altri sodali”. Nella fascia intermedia c’erano Filippo Marino, Giovanni Costanzo, Gaetano Privitera e Ivan Mancini che avrebbero avuto “compiti di raccordo tra i vertici e la manovalanza” e alla base della piramide si collocavano i “pusher” con il compito di operare direttamente le cessioni di stupefacente”.
Lo spaccio di marijuana e cocaina avveniva nell’incrocio tra via Alogna, via Trovatelli e via Della Lava. La marijuana era venduta in “involucri di carta argentata del peso di due grammi per il prezzo di 10 euro”, la cocaina era in “involucri di carta cellophane termosaldata del peso di 0,2 grammi (i cosiddetti quintini), venduti al prezzo di venti euro, o del peso di 0,25 grammi (cosiddetti quartini) vendita a trenta euro”.
Tra le 14 e le 14,30 di ogni giorno, il responsabile della piazza di spaccio, generalmente Vito e Carmelo Musumeci, provvedevano secondo uno schema “abituale ad accompagnare il lanciatore nei pressi del civico 4 di via Della Lava” dove si collocava per il suo “turno di servizio”, mediante una scala, sul balcone di un appartamento abbandonato del primo piano, con il compito di lanciare lo stupefacente agli spacciatori che stazionavano sulla strada. Il rifornimento del “panaro”, il rudimentale sistema di secchio e corda, avveniva in maniera sistematica. Per ordinare ai corrieri di andare a prendere la droga – si rileva dalle conversazioni ambientali – era usata l’espressione convenzionale “vai dalla mamma“. Tutto avveniva in pochi secondi: il corriere prendeva la “merce”, la caricava nel paniere che era portata al piano superiore dello stabile fatiscente dal lanciatore, come se stesse utilizzando una carrucola.
La vendita della droga seguiva una sequenza stabilita, che aveva l’obiettivo di non far capire agli acquirenti il sistema utilizzato. Il “cliente” infatti era intercettato per “l’ordine” e poi era “invitato a collocarsi più avanti”. A quel punto gli spacciatori, a voce alta, (come emerge dalle intercettazioni), “passavano” le richieste al lanciatore, che materialmente lanciava le dosi dal balcone. Il pusher a quel punto prendeva i soldi e consegnava la dose, consigliando al compratore di nasconderla per evitare problemi con la polizia. “Cosa vuoi compare?” – Chiedeva lo spacciatore durante una conversazione captata – “Una compare“. Era la richiesta, a quel punto il grido: “Buttale, una stecca” (o la richiesta cambiava in “palla” se si trattava di cocaina ndr)”. “Ciao compare” – emerge da un’altra intecettazione – “Due stecche“, il pusher consegnava e consigliava: “Due stecche, tieni compare, nascondile nelle mutande perchè c’è la polizia“.
Gli incassi a ritmi precisi erano affidati ai responsabili di piazza o in loro assenza al lanciatore con il solito metodo del cesto con la corda, per limitare il rischio di sequestri. Il lanciatore doveva annotare il numero di dosi ricevute e cedute su un foglietto, come si evince da una conversazione intercetttata in cui il “lanciatore” effettuava dei veri e propri contegggi sulle dosi smerciate.
Dalle 20.20 alle 21.00 avveniva il campio di turno del lanciatore, che scendeva dal tetto e veniva sostituito. E non mancavano le lamentele sui turni troppo lunghi, c’era chi pretendeva anche un benefit per gli straordinari. “Oggi sto facendo 15 ore – si sente da una intercettazione -…200 euro?” La risposa alla richiesta del pusher: “E che vuoi? Prendi 200 euro“.
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17 Luglio 2014, 05:58