20 Novembre 2015, 19:34
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PALERMO – Il no alla nuova audizione di Giorgio Napolitano, forse, non era messo nel conto. Spariglia le carte. La Corte d’assise di Caltanissetta, davanti a cui si celebra il Borsellino quater, ha ritenuto di avere acquisito già numerosi elementi nel corso delle precedenti udienze sul contesto sociale e politico dell’Italia nel ’92, grazie alle audizioni di testi quali Giuliano Amato, Claudio Martelli, Liliana Ferraro, Pino Arlacchi e altri. Non solo, l’audizione dell’ex capo dello Stato avrebbe scandagliato in parte gli stessi fatti e certamente lo stesso contesto della prima testimonianza resa al processo sulla trattativa Stato-mafia.
Era davvero necessario sentire Napolitano per chiarire circostanze processuali oppure il suo nome non rischiava di essere utile, solo ed esclusivamente, alla nomenclatura del movimento antimafia? La decisione del collegio nisseno, presieduto da Antonio Balsamo, è una risposta più che esaustiva, tranciante.
La richiesta era partita dall’avvocato Fabio Repici. Era stato, infatti, il legale di Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo, parte civile al processo, a chiedere la citazione di Napolitano. La richiesta era di due anni fa, e cioè ben prima dell’ottobre 2014 quando Napolitano depose al dibattimento sulla presunta trattativa Stato-mafia. E così il presidente emerito, pochi giorni fa, ha preso carta e penna per spiegare che “la mia deposizione al processo Borsellino non sarebbe rilevante e sarebbe ripetitiva”. Il suo appello al buon senso è stato accolto.
Un anno fa l’allora presidente della Repubblica fu citato dai pubblici ministeri di Palermo che sostengono sia esistito un patto scellerato fra lo Stato e i boss. Per una manciata di giorni sembrava certo che da ex capo dello Stato e attuale senatore a vita Napolitano sarebbe stato ascoltato nel processo sulla strage di via D’Amelio.
La sua citazione, oggi bocciata, ripropone all’ordine del giorno il tema delicato delle parti civili. Si viene riconosciuti tali quando c’è la certezza di avere subito un danno dal reato contestato agli imputati. Nessun dubbio sul punto: un uomo a cui hanno massacrato un fratello ha subito il più grande dei torti. Entrando nel merito giuridico, le parti civili diventano attori del processo. Significa entrare in contraddittorio con il giudice, il pubblico ministero e il difensore dell’imputato, significa portare prove e citare testimoni, nominare consulenti tecnici, chiedere il sequestro conservativo dei beni e, in ultima istanza, impugnare le sentenze. Insomma, un ruolo delicato che va ben oltre la possibilità di chiedere il risarcimento del danno.
Ed invece troppo spesso, in questi anni e in tutti i Tribunali siciliani, si è assistito allo strumentale proliferare delle parti civili. Le associazioni e i movimenti sono divenuti un’infestante gramigna antimafiosa, non sempre falciata dai giudici che hanno il compito di ammetterle o meno al processo. Il presupposto del danno patito viene sacrificato in nome della speranza di incassare il risarcimento danni. Nella stragrande maggioranza dei casi lo paga lo Stato attraverso il fondo delle vittime di mafia, perché gli imputati si presentano nullatenenti al processo.
Serve il bollino antimafia per diventare qualcuno e partecipare alla grande abbuffata delle parti civili. E fanno la fila per esserci. Il modello siciliano ha fatto scuola altrove. L’ultima immagine significativa è arrivata non dalla Sicilia ma da Roma. Se c’è la Mafia Capitale perché non può esserci l’Antimafia Capitale? Il Tribunale ne ha fatte fuori un bel po’ di queste aspiranti e spesso demagogiche parti civili.
In Sicilia, a Caltanissetta, c’è il dolore per i morti ammazzati – il dolore insanabile di Salvatore Borsellino e dei parenti delle altre vittime – ma c’è pure lo sventolio delle agende rosse. Forse erano pronti a seguire la trasferta romana della Corte d’assise di Caltanissetta. La tappa della tournée è saltata. Peccato, chissà quanti media avrebbe attirato Giorgio Napolitano.
Certamente qualcuno in meno, però, di un anno fa quando testimoniò al processo Trattativa. Allora gli chiesero chiarimenti su Loris D’Ambrosio, che fu consigliere giuridico del Quirinale e che, dopo una serie di telefonate di Nicola Mancino intercettate e pubblicate, diede le dimissioni con una lettera a Napolitano in cui esprimeva il timore “di essere stato considerato un utile scriba per indicibili accordi”. Poi le stragi del ’93 e la percezione che le istituzioni ebbero di ciò che stava accadendo. Ed ancora: i rapporti fra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino, e l’allarme per possibili attentati di cui lo stesso Napolitano, allora presidente della Camera, rischiava di rimanere vittima.
A dicembre avrebbe dovuto rispondere dell’avvicendamento fra Mancino e Scotti nel ruolo di ministro dell’Interno nel giugno 1992. In pratica, uno dei nodi principali del processo di Palermo dove il cambio al vertice del Viminale viene considerato come una tappa di avvicinamento al patto poiché Mancino sarebbe stato un ministro più “morbido” rispetto all’intransigente Scotti. Così come nodale è il tema del “contrasto” che il decreto che instaurava il regime del carcere duro avrebbe incontrato per la conversione in legge.
Siamo nel cuore della ricostruzione del processo Trattativa. Un processo nel quale Napolitano aveva già risposto. Lo ha fatto notare ai giudici: “Auspico che la Corte condivida la convinzione maturata in una vita al servizio delle istituzioni e cioè che l’accertamento dei reati richieda la massima concentrazione delle energie processuali e non la loro dispersione”. Napolitano sottolineava anche “la sconfinata comprensività e la assurda vaghezza” dell’articolato di prova formulato dalla parte civile che chiede che l’ex Capo dello Stato riferisca “su quanto a sua conoscenza su fatti e persone a vario titolo coinvolte”.
Alla fine, dunque, l’avvocato Repici non avrà la possibilità di formulare un ampio ventaglio di domande. Le stesse domande che, probabilmente, avrebbe già rivolto qualora fosse riuscito ad entrare nel processo Trattativa dal quale, però, fu escluso sia come legale di Salvatore Borsellino che delle Agende rosse. Se i processi sono diversi è altrettanto vero che il testimone e i fatti sarebbero stati gli stessi. Fatti su cui nulla Napolitano ha già detto di sapere. Ci hanno provato.
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