02 Agosto 2018, 18:12
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PALERMO – “Reiterati, brutali e gratuiti atti di violenza” contro Khalifa Dieng, aggredito, a Partinico, per il colore della sua pelle. Sarebbe stato “l’odio razziale” a scatenare la furia di Lorenzo Rigano e Gioacchino Bono, finiti ai domiciliari. Sono stati 145 secondi di spintoni, calci e pugni.
Odio genera odio: il giudice Fabrizio Anfuso non ha dubbi sul movente. Mentre quattro o forse sei persone picchiavano il giovane senegalese, come ha riferito la stessa vittima, urlavano “guarda quel figlio di buttana negro di merda. Siete tutti dei figli di buttana. Ve ne dovete andare dal nostro paese… ti rompo la faccia”.
Frasi che, secondo il Gip che ha accolto la ricostruzione dei pubblici ministeri, “sono soprattutto espressive di odio e disprezzo razziali, rivelando l’inequivoco e comune sentimento di avversione fondato sull’origine etnica della vittima, che, al di là dei fattori generativi individuali, è verosimilmente alimentato anche da recenti e notorie manifestazioni di intolleranza che hanno avuto ampia eco mediatica”.
Le immagini di due telecamere hanno consentito di ricostruire l’aggressione subita da Khalifa Dieng, ma anche di fare emergere il clima di omertà che ha protetto i due indagati e protegge le persone ancora da identificare. “Le suddette riprese permettono anche di svelare la diffusa e desolante coltre di omertà che ha contraddistinto la generalità dei soggetti e sono tantissimi, a piedi o in macchina – scrive il giudice – che hanno assistito alle varie fasi dell’aggressione, perché nessuno, al di là dei meritori interventi attuati a difesa del Dieng, ha manifestato senso civico ed atteggiamento collaborativo con gli inquirenti, fornendo ad esempio elementi utili all’identificazione degli aggressori, che pure, da quel che emerge dalle indagini, sono ben noti in quanto abituali frequentatori della piazza e dei locali di ristorazione ivi ubicati”.
Alcuni, come un minorenne ospite della medesima comunità nella quale alloggia Dieng, ha raccontato, mentendo, che si era subito allontanato dal luogo dopo aver visto l’amico “discutere con il gruppo di persone che si trovava davanti al bar”. Eppure le immagini lo smentiscono. Altri come “Gregorio Bono, titolare dell’omonimo bar – identificabile dalle immagini come l’uomo dalla maglia rossa che ad un certo punto, nel pieno dell’aggressione, si allontanava in macchina – ha dichiarato di non essere stato presente in loco e di aver appreso solamente dal figlio dell’accaduto e dell’identità di alcuni dei soggetti venuti alle mani”. Altri ancora come “Gaspare Castello, che pure si era prodigato non poco per contenere la furia degli aggressori e proteggere il Dieng, ha riferito di non essere in grado di descrivere con compiutezza gli accadimenti ed i responsabili perché si trovava a debita distanza intento a mangiare una pizza, pur ammettendo timidamente che il giovane di colore aveva mostrato ai presenti il contenuto del suo portafoglio, dicendo ‘vedi io sono come te, sono italiano’, subito osteggiato da alcuni dei presenti (‘ma quale cazzo di italiano’), con ciò avvalorando di fatto il racconto della persona offesa circa la matrice razziale dell’aggressione”.
Secondo il giudice, i due indagati meritano di finire ai domiciliari perché c’è il rischio che inquinino le prove e reiterino il reato. Elementi che si “traggono dall’incredibile efferatezza palesata dai due indagati, oltremodo risoluti a picchiare comunque ed a ogni costo il ragazzo, solo perché di colore e senza che questi avesse dato causa a tale inusitata aggressione, che è rivelatrice di una pericolosità sociale francamente allarmante e difficilmente contenibile”. In più c’è il rischio che possano indurre il giovane senegalese, ancora impaurito, a tornare sui propri passi dopo che ha denunciato con fermezza l’aggressione.
Il lavoro dei pm Calogero Ferrara e Alessia Sinatra, coordinati dal procuratore aggiunto Marzia Sabella, non è finito: restano da identificare gli altri aggressori.
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02 Agosto 2018, 18:12