24 Settembre 2015, 06:15
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PALERMO – Trentaquattro anni dopo il delitto viene inflitta una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Salvatore Cintura. Il “fine pena mai” arriva per Giuseppe Marfia, anziano capomafia di Altofonte.
Cintura, 36 anni e padre di due figli, avrebbe pagato con la vita i furti commessi in un cantiere “protetto” dai boss. Gioacchino La Barbera, killer reo confesso e oggi collaboratore di giustizia, avrebbe agito su mandato di Marfia il 23 maggio del 1981. “Gli sparai un primo colpo di fucile, ad una distanza di qualche metro – raccontò La Barbera -. Credo di avere colpito la parte superiore del corpo e la testa. Poi, ho sparato un secondo colpo contro l’uomo, già a terra”. Fu il primo incarico “importante” che gli veniva affidata. Di strada ne avrebbe fatta parecchia visto che nel 1992 partecipò alla strage di Capaci.
La Barbera ha ricostruito tutte le fasi che portarono all’agguato. Prima, le indagini interne alla famiglia mafiosa: “Fui incaricato da Giuseppe Marfia di controllare chi fosse l’autore di ripetuti furti di materiale ferroso nel cantiere dell’impresa Iaces, che stava realizzando un lotto della strada Palermo-Sciacca in contrada Salamone di Altofonte. Allora avevo 21 anni circa, mi ero reso conto che Marfia aveva un ruolo nell’ambiente criminale di Altofonte, ed era di fatto guardiano di quel cantiere, pur se impiegato alle poste a Palermo”. Ed ancora: “Marfia mi disse che si erano verificati diversi furti, che finivano col recare all’azienda un certo danno, perché veniva rubato materiale che non era ferro vecchio, ma costituito da pezzi da usare in cantiere. Marfia mi dette quindi un fucile a canne mozze, e mi disse di vedere chi era il ladro, e di sparargli così da togliersi il pensiero”.
Quindi, il piano di morte: “A tal fine io, per tre o quattro giornate di sabato successive, mi appostai nel cantiere della Iaces, vicino alla baracca dove era custodito il materiale. Finalmente, uno di questi sabati, vidi arrivare un uomo piuttosto giovane, di circa 30-35 anni, con una moto Ape, dato che aveva la targa. Vidi l’uomo rompere la toppa della baracca, e cominciare a cercare il materiale da portar via. Io ero appostato dietro un muro poco distante, e situato ad un livello più alto della baracca. Naturalmente, l’uomo stava in guardia, e ad un certo punto mi notò, anche perché io a mia volta lo chiamai e gli chiesi cosa stesse facendo. L’uomo si avvicinò verso di me, e ricordo che c’era una scala mobile appoggiata al muro, che stava per usare per arrivare fino a me, invece di scappare come invece io pensavo”. Fu allora che La Barbera entrò in azione: “A quel punto gli sparai un primo colpo di fucile, ad una distanza di qualche metro. Credo di avere colpito la parte superiore del corpo e la testa, anche perché io sparavo dall’alto verso il basso. Poi sono sceso a mia volta usando la scala di cui ho detto, ed ho sparato un secondo colpo contro l’uomo, già a terra. Dopo di ciò, coprii il cadavere con un pannello in ferro ed andai a cercare Marfia”.
A distanza di 34 anni dall’omicidio viene inflitta una condanna ergastolo su richiesta dei pubblici ministeri Sergio Demontis e Amelia Luise. Non passa la linea difensiva secondo cui, oltre a mancare i riscontri, le dichiarazioni dei pentiti non erano concordanti. Del delitto, infatti, avevano parlato altri collaboratori di giustizia.
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24 Settembre 2015, 06:15