13 Giugno 2015, 05:54
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CATANIA – “Dopo il furto a casa non è più stato tranquillo”. Luana Ilardo ripercorre i momenti terribili del giorno dell’omicidio del padre Gino e i mesi precedenti al delitto. Il 10 maggio 1996 è lei, ad appena 15 anni, la prima a scendere di corsa da casa e a guardare il corpo di suo padre crivellato di pallottole riverso sull’asflato vicino alla sua Mercedes. “Ho sentito gli spari e sono scesa in strada”. Quella sera papà Gino doveva uscire con la sua compagna. Luana e sua sorella, invece, dovevano badare ai piccoli. “Mio padre non è mai arrivato a casa” – racconta rispondendo alle domande del pm Pasquale Pacifico. E durante il suo esame torna alla ribalta il misterioso furto a casa di Ilardo. “E’ stato due mesi prima dell’assassinio di mio padre, siamo stati io e mia sorella ad accorgercene – spiega Luana Ilardo – perchè i cuscini della camera da letto erano senza federe”. Qualcuno era entrato nell’appartamento di via Quintino Sella con le chiavi e senza segni di effrazione aveva svuotato la cassaforte. “Qualcuno si è permeso di entrare nella mia chiesa e rubare il mio oro” – Luana ricorda che suo padre commentò così il furto. “E’ diventato una biglia impazzita, perchè cercò di capire chi era stato. Pensava fosse qualcuno collegato alle nostre frequentazioni, perchè nessuno, diceva papà, si sarebbe permesso di fare una cosa del genere. Un giorno si è presentato – racconta Luana – con 6 o 7 macchine al Crasy Game vicino al Cutelli per parlare con chi frequentava la sala giochi, dove andavamo spesso anche noi”.
Non arriverà mai a sapere chi aveva derubato i suoi averi Gino Ilardo. Anche se i sospetti, come racconta il suo autista Giuseppe Biondo davanti alla Corte d’Assise, ad un certo punto arrivano addirittura a “Giovanni Brusca” della cupola palermitana. Poche ore prima di essere ammazzato Luigi Ilardo va nella sua masseria a Lentini, ed incontra Biondo e suo padre. “Era pensieroso e preoccuato” – racconta l’ex autista. Secondo i verbali della polizia pochi giorni dopo l’omicidio Biondo riferì agli investigatori che Ilardo (così aveva detto) era stato a pranzo con una signora bionda di nome Silvana, un’assicuratrice. Ilardo trascorse almeno tre ore a Lentini, poì partì alla volta di Catania. Non volle essere accompagnato. Ad un certo punto all’azienda agricola arrivò la telefonata che annunciava l’omicidio di Gino. A quel punto, come risulta dalle dichiarazioni rese alla polizia, Biondo telefonò a Alfio Aiello per farsi dare il numero di Giovanni Privitera. Ma su questo punto l’ex autista non ricorda i particolari.
Luana Ilardo e Giuseppe Biondo confermano i contatti dell’infiltrato con l’avvocato calabrese Minniti. Legami che sarebbero stati scoperti anche dalla polizia durante gli accertamenti dopo l’omicidio. E’ Giovanni Signer, dirigente della polizia di stato, a fornire indicazioni sulle indagini che furono avviate dopo il 10 maggio 1996. Furono ricostruiti contatti e legami, ma quell’inchiesta non portò mai a fermi e arresti. Indubbiamente Ilardo aveva contatti con molti soggetti dellla criminalità organizzata, ma non solo Santapaola e Madonia, ma anche con Orazio Privitera degli Sciuto Tigna. Una stretta relazione l’avrebbe avuta anche con i fratelli Barbagallo, due di loro nell’arco di un anno furono uccisi. E qualcuno avrebbe detto che quei delitti avevano un collegamento con l’omicidio di Luigi Ilardo. “Da una fonte investigativa – racconta Signer – abbiamo saputo che Ilardo aveva avuto conflitti con esponenti della criminalità del calatino, in particolare con Pietro Balsamo di Piazza Armerina”. Il riferimento è alla famiglia di Francesco La Rocca.
Dallo studio dei tabulati telefonici i poliziotti scoprono che Luigi Ilardo aveva contatti anche con esponenti della forze di polizia. “Non sapevamo che fosse un confidente” – spiega Signer rispondendo a uno dei difensori. Che Ilardo fosse infatti un infiltrato e fosse il confidente del colonnello Michele Riccio dei Ros si scoprirà solo dopo il suo omicidio. Quell’uomo del nord che Luana Ilardo conosceva con il nome di Bruno, e Giuseppe Biondo aveva visto alla masseria di Lentini. “E’ un pezzo grosso”- gli avrebbe detto Ilardo al suo autista.
Uno degli uomini di fiducia del colonnello Michele Riccio a Catania era il sostituto commissario della Dia (oggi in pensione) Mario Ravidà. “Io e Michele Riccio entrammo subito in sintonia” – spiega durante l’interrogatorio. “Sapevamo che il colonnello riceveva informazioni da un collaboratore, ma non ci disse mai il nome e neanche a noi interessava saperlo”. Alcune di quelle rivelazioni furono la base per l’importante operazione Chiaraluce che decapitò i vertici che negli anni ’90 reggevano le file della famiglia Santapaola. Fu sempre Michele Riccio a fornire le informazioni che portarono a identificare chi era il capo di Cosa Nostra a Catania: Aurelio Quattroluni, nome fino a quel momento sconosciuto. Grazie alla fonte di Riccio si arriva ad arrestare Enzo Aiello a Mascalucia, ad ammanettare Lucio Tusa. Il Colonnello ritornò ai Ros, ma “noi ci sentivamo lo stesso” – racconta Ravidà.
Ad un certo punto accade qualcosa. Ravidà e il collega Francesco Arena sono convocati da Tuccio Pappalardo alla Dia di Roma. “Ci diffidò di frequentare Michele Riccio – racconta – perchè era un personaggio pericoloso che si era approfittato dello Stato e tra poco sarebbe stato arrestato per traffico di stupefacenti”. Ma l’investigatore fornì elementi al dirigente della Dia a difesa di Riccio. “E parlammo anche dell’incontro a Mezzojuso e della cattura fallita di Bernardo Provenzano, era stato lo stesso Colonnello a raccontarcelo dopo l’omicidio di Luigi Ilardo”.
La Dia, il giorno dopo l’omicidio, redige un appunto investigativo sui possibili moventi dell’uccisione del cugino del capomafia di Caltanissetta Piddu Madonia (imputato, insieme a Enzo Santapaola, Benedetto Cocimano e Maurizio Zuccaro, con il ruolo di mandante). Un’annotazione però di cui Mario Ravidà non aveva mai saputo nulla fino al 2013 quando fu ascoltato come persona informata dei fatti. “Ma visto che lei e Arena avevate avuto contatti diretti con Riccio nessuno vi ha mai chiesto di fare un’indagine su quel delitto?”- chiede il pm Pasquale Pacifico. “No. Anzi ci fu contrastato il rapporto con il collonello Riccio”.
Trascorrono cinque anni e l’ex commissario della Dia si trova catapultato nuovamente nel delitto Ilardo. E’ il 2001 e Mario Ravidà entra in contatto con Eugenio Sturiale che diventa (e lo sarà per circa 10 anni) una fonte confidenziale. La sua prima notizia sarà quella di indicare gli autori materiali dell’omicidio di Gino Ilardo. “Sturiale abitava vicino casa di Ilardo e pochi giorni prima aveva visto i componenti della squadra di Zuccaro nei pressi della sua abitazione”. Insomma Sturiale, che dopo l’arresto in Revenge diventa collaboratore di giustizia, raccontà di aver visto chi aveva fatto i sopralluoghi e chi quindi era l’esecutore materiale di quel delitto. Ravidà scrive l’annotazione di servizio e la consegna ai suoi dirigenti. “Da quello che so io non è mai stata avviata un’indagine, nonostante le mie pressioni. Solo dopo 9 mesi fu redatta una relazione che fu consegnata alla magistratura, ma sempre secondo le mie conoscenze – incalza Ravidà – non è stata aperta alcuna inchiesta in merito”. Sturiale (personaggio che ha militato tra i Santapaola, Cappello e Laudani) ha confermato questa versione anche nel 2011: da lì parte l’indagine che ha portato a questo processo.
Gino Ilardo, dunque, secondo le parole di Eugenio Sturiale è stato ucciso dai componenti della squadra di Maurizio Zuccaro. “Ma secondo le logiche della criminalità organizzata un uomo del calibro di Ilardo doveva essere ammazzato da chi comandava in quel momento la cosca e cioè Aurelio Quattroluni. Se, invece, a organizzare il delitto è Maurizio Zuccaro allora c’è qualcosa che non va” – commenta Ravidà.
Un velo di sospetti da sempre ha attorniato la figura di Maurizio Zuccaro. Il fatto che ottenesse quasi sempre i domiciliari aveva messo la pulce nell’orecchio agli investigatori della Dia. “Sospettavamo che avesse contatti con componenti delle Istituzioni dello Stato”. Ed è Eugenio Sturiale a parlare di un episodio che sembrava avvalorare quelle che sono rimaste solo ipotesi. Sarebbe stato evitato – da come emerge anche da una relazione di servizio redatta da Ravidà nel 2006 – grazie all’intervento di Benedetto Cocimano l’omicidio della moglie di Zuccaro, e come componenti del gruppo di fuoco “furono identificati – racconta – soggetti appartenenti alle Istituzioni dello Stato e non soggetti della criminalità organizzata”. Ancora una volta nella morte di Luigi Ilardo compare la presenza oscura e inquietante di uomini dello Stato che avrebbero avuto rapporti con killer e boss della mafia.
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13 Giugno 2015, 05:54