“Tradito da una tazzina di caffè”| Ergastolo per l’omicidio Licari

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11 Luglio 2016, 14:50

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PALERMO – Tradito da una tazzina di caffè. C’era il Dna di Antonio Muratore in casa di Baldassare Licari, capo cantoniere in pensione, 64 anni, ucciso a colpi di pistola nel 2013 nelle campagne di Borgetto. Per Muratore, pensionato di 76 anni, oggi è arrivata la condanna all’ergastolo. Un delitto che sarebbe maturato per vecchi dissapori fra vicini.

Il 4 novembre 2013 una chiamata al 113 avverte che c’è un cadavere dentro una Fiat 600 in contrada Sagana Porta Palermo, nelle campagne di Borgetto. Licari è stato ucciso da un colpo di pistola alla tempia destra. Altri quattro proiettili lo hanno raggiunto al collo e al torace. È seduto sul sedile guida, senza maglietta né scarpe. Indossa solo un paio di pantaloncini. La macchina ha perso del liquido refrigerante. Seguendo la scia, i poliziotti giungo nella casa della vittima. Sul pavimento della cucina ci sono i cocci di vetro di un barattolo di zucchero. Sulla porta, tracce di sangue e impronte. Sul tavolo tre tazzine di caffè. Una piena e due vuote.

I parenti di Licari non sanno darsi una spiegazione. Raccontano un solo un episodio ai pubblici ministeri Dario Scaletta e Claudio De Lazzaro. L’uomo era stato denunciato dalla proprietaria di una casa a Montelepre. Beghe di vicinato causate dall’istallazione di un recipiente. Licari ha un immobile nella stessa palazzina. La donna è figlia di Antonino Muratore. Il telefono del padre finisce sotto controllo: “… ma questo mi pare che era quello che si è comprato le case di mia suocera la sotto e dimmi una cosa, questo che è morto l’altra volta come si chiama Saro?”.

Frasi che, secondo l’accusa, sarebbero state volutamente pronunciate dall’indagato per allontanare i sospetti. Perché in realtà vittima e presunto assassino si conoscevano bene. Lo convocano in commissariato. Ai parenti Muratore racconterà che gli investigatori “ hanno messo la tazzina… vuota nel… sopra il tavolo… il caffè se lo prende? Non lo voglio….. No gli dissi, me lo prendo una volta solo la mattina…..”.

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Il 12 marzo gli stessi investigatori prelevano un campione di saliva di Muratore. E scoprono che è stato lui a bere in una delle tre tazzine trovate sul tavolo della cucina. Eppure ai poliziotti l’uomo, come lui stesso racconta ai parenti, aveva detto che “.. io, non, non lo ho visto. Anzi gli dissi che è da quattro anni che non lo vedo, se a lui lo vedo…, neanche lo conosco più…e loro questo aspettavano, che glielo dico io! Perché… e come lo sa… aumenta la dose…tanto piacere se lo vedo gli ho detto …io ho fatto finta che non sapevo niente”.

C’è una intercettazione, più di altre, che in Procura ritengono decisiva: “… io… il numero… che cancellai tutte cose e… non vi chiamavo più e cose perché, chi sa, quando sono andato la, senza… e… cose… telefonino. L’unica cosa se, tramite i satelliti, ti prendono ma chi lo sa, hanno potuto prendere però, se non hanno preso tramite cosa, cosa… non hanno niente da fare…”.

Entrare in casa di Licari senza telefono non è servito. Muratore ha negato ogni accusa. Mai stato in quella abitazione. Così come ha negato di conoscere la vittima. Anche questo episodio è stato smentito. Il Dna sulla tazzina? “Non può essere il mio”, disse Muratore ai magistrati. Di diverso avviso prima il pm e ora i giudici della Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto. Nella ricostruzione dell’accusa c’era un vuoto nell’ora presumibile del delitto. Ma c’erano pure dei comportamenti che avrebbero tradito l’imputato: dalla strana passione per le armi con tanto di esercitazione al poligono di tiro scoperta in età avanzata ai fogli di giornale sul delitto che aveva ritagliato e che gli trovarono in casa. 

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11 Luglio 2016, 14:50

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