03 Febbraio 2024, 08:54
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Tre operai bengalesi assunti da una ditta esterna che opera nell’area Fincantieri, al porto di Ancona, per tre anni hanno ricevuto stipendi dimezzati per assicurarsi un lavoro e, grazie ad esso, il permesso di soggiorno necessario per rimanere in Italia. I tre per anni si sono visti costretti a restituire parte dello stipendio (1.200 euro) a due collaboratori del loro titolare. “Meglio avere 600 euro che vendere rose in strada”, le parole delle vittime, che per non perdere il lavoro hanno subito per anni questa richiesta.
La vicenda di presunto caporalato è stata denunciata nel 2019 ma ha avuto inizio nel 2017 ed è finita ora a processo al tribunale di Ancona, dove la segretaria generale della Fiom Cgil Marche ha raccontato i fatti come testimone dell’accusa. Era stato il sindacato, parte civile nel processo, a far scattare l’esposto alla guardia di finanza, dopo i racconti degli operai.
“All’epoca ero funzionario e seguivo le ditte di appalto per garantire i diritti essenziali ai lavoratori sui quali non correvano buone voci. Gli operai ci raccontarono che due incaricati, ogni mese, andavano da loro per farsi ridare parte dello stipendio, tra i 600 e i 700 euro su una paga complessiva di 1.200 euro al mese. Gli operai pagavano e mi dissero ‘meglio avere 600 euro che vendere le rose in strada’. Le buste paga non avevano ferie e malattie pagate”.
Non solo la “cresta” sullo stipendio ma anche sulle ore di lavoro. Su un tetto massimo di 173 ore mensili gli operai ne avrebbero lavorate 260. Ad approfittarsi dello stato di necessità sarebbero stati sia il datore di lavoro che i suoi due collaboratori, bengalesi anche loro. Il titolare dell’azienda incriminata, che ha sede ad Ancona, è stato assolto in abbreviato mentre i suoi due bracci destri sono a processo per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La prossima udienza del processo si terrà il 17 maggio.
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03 Febbraio 2024, 08:54