25 Gennaio 2018, 18:52
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PALERMO – Il giorno della sua vittoria, dentro il calice del brindisi cadde una goccia di veleno. Che Leoluca Orlando sputò subito contro la giornalista di La7 e il direttore Enrico Mentana che avevano “osato” associarlo al Partito democratico. “Ma quale Pd?” protestò il neo-ri-sindaco. Ma quale Pd? È proprio questo il punto. Perché in effetti, in occasione delle amministrative palermitane, quel partito aveva persino deciso di tenere nello sgabuzzino il proprio simbolo. Il proprio nome. Confondendo storie e tradizioni con quelle degli alfaniani, ossia degli ex berlusconiani.
Ma quale Pd? Protestava Orlando. Sventolando sotto il naso dei palermitani e poi – via tubo catodico – sotto quello degli italiani, l’esempio vincente del “civismo”. “Il mio partito è Palermo”, ribadiva. E ribadisce anche oggi, come se nulla fosse successo.
E invece, il passaggio di Leoluca Orlando e fedelissimi al Pd, suona proprio come una sterzata secca, per immettersi contromano rispetto alla coerenza. Anzi no. Meglio mettere da parte il richiamo peloso alla coerenza, ma quantomeno difendere quello alla memoria. Non quella storica, lontana e sedimentata. Ma quella dei fatti dell’altroieri, che suonerebbero come qualcosa di assai vicina all’attualità, se tutto non fosse macinato velocemente dalle esigenze della realpolitik.
Insomma, mentre Leoluca Orlando, nei minuti dell’annuncio, saluta il segretario palermitano del Partito democratico, forse bisognerebbe ricordare i recentissimi trascorsi tra il primo cittadino e il faroaniano Carmelo Miceli. A metà del 2016, ad esempio, il segretario cittadino parlava di “una sceneggiata che a Palermo va in onda da più di 30 anni”. Sarebbero trentadue, adesso, stando al racconto del politico Dem. Il protagonista, ovviamente, era Orlando che pochi giorni prima aveva a sua volta accarezzato il partito di Miceli: “Il Pd ha perso il consenso, chi si allea con loro perde il consenso”. Evidentemente, qualcosa da allora è cambiato.
Eppure, in quei giorni lo stesso Miceli, segretario Pd legato a Davide Faraone, parlava di “uno schema già visto, trito e ritrito per certi versi politicamente patetico. A differenza delle puntate precedenti, – assicurava Miceli nell’autunno del 2016 – chi ha mal governato la città relegandola agli ultimi posti di tutte le classifiche è Orlando stesso, non altri”. Insomma, se non fosse ancora chiaro quale fossero le idee del Pd su Orlando, basta voltare poche pagine del calendario: “Palermo e i suoi cittadini, stavolta, – diceva poi Miceli – non sono disponibili a farsi incantare da chi, sulla scena da sempre, ha prodotto solo buone intenzioni e raccolto macerie, e persevera nello spacciarsi per nuovo Il ‘cavaliere senza macchia né peccato’ Leoluca Orlando. Tra essere nuovo e recitare il nuovismo – concludeva – la differenza è tanta, troppa anche per un abile ma stanco e attempato attore come Orlando”. Cioè il sindaco che ha appena aderito al Pd, grazie anche ai buoni uffici di Faraone. Quel Pd, insomma, che lo stesso Orlando provava a tenere lontano. Del resto, nell’ottobre del 2015 affermava sicuro: “Un candidato che appaia espressione del Pd non ha nemmeno il voto di sua sorella”. Un viatico non proprio incoraggiante, per il suo fedelissimo Giambrone, prossimo candidato nelle liste Dem.
Insomma, tutto portava lì. Al ferreo, inderogabile richiamo al civismo, all’esperienza politica, cioè, che andasse al di là dei partiti. Eccolo, il “Modello Palermo” così vincente da renderlo necessario, imprescindibile anche in vista delle elezioni regionali.
E lì, ecco però emergere altre evidenti contraddizioni, sospetti e ombre. Che anche dentro il Pd erano spuntate, a taccuini chiusi e microfoni spenti: “C’è in atto un progetto per spaccare il Pd, per prendersi il Partito democratico”. Sospetti cresciuti improvvisamente, di fronte al “tonfo” non tanto della “vittima designata” (da Orlando), cioè il rettore Fabrizio Micari, quando nel flop della lista dei territori che avrebbe dovuto esibire i muscoli di un sindaco-politico in grado di farsi valere anche fuori dal comprensorio palermitano. Un fallimento prevedibilissimo se non addirittura congegnato, voluto. Questo pensava qualche big dei Dem, in quei giorni.
Perché di fronte alla possibilità di perdere, era forse più utile “straperdere”. Per vedere calare il valore di alcune (non tutte) azioni del Pd. E poter entrare da socio nobile, in quella cordata del “rinnovamento” e della rottamazione che si fonda su Leoluca Orlando, appunto, e Totò Cardinale. E così è stato. Con tanto di seggi sicuri alle Politiche. Il civismo votato dai palermitani? Dopo sette mesi è già in soffitta. Sette mesi di continua campagna elettorale, in una Palermo soffocata dalle emergenze. Una campagna che ha prodotto un risultato solo, frutto, forse, di un solo fine: quello di prendersi il Pd, dopo averlo disprezzato.
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25 Gennaio 2018, 18:52