23 Maggio 2013, 21:32
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Catania – Un minuto di silenzio per ricordare le vittime della strage di Capaci. Si è aperta così la manifestazione organizzata dall’Associazione Nazionale Magistrati “Il ruolo dell’Informazione nella lotta alla criminalità organizzata”. Un silenzio riflessivo, distante da quello cancerogeno che non aiuta il giornalismo a decollare alla volta della verità.
“Il 23 maggio del 1992 è uno di quei giorni impressi a fuoco – ha esordito Pasquale Pacifico – nella memoria collettiva. Sono convinto che ognuno di noi è in grado di ricordare esattamente cosa stesse facendo nel momento in cui ha appreso quella terribile notizia. È come se si fosse fermato il tempo, ma è stato anche l’inizio di un nuovo modo, da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica, di comprendere la lotta alla mafia. Falcone e Borsellino avevano intuito che per combatterla occorreva un cambio di mentalità e di maturazione delle coscienze civiche. Il ruolo dell’informazione risulta estremamente importante e attuale perché, se negli anni 90 la mafia si faceva sentire con il tritolo, oggi, siamo in presenza di organizzazioni che forse fanno meno rumore ma non per questo sono meno pericolose. E proprio quando vi è il rischio di abbassare l’attenzione nei confronti del problema la funzione dell’informazione diventa significante”. Un’analisi, dunque, per riflettere sul giornalismo d’inchiesta nella città di Giuseppe Fava, un’analisi per comprendere quanto sia difficile fare il giornalista in una città come Catania. “In America – conclude Pacifico – per sottolineare la funzione di tutela dell’ordinamento democratico dell’informazione si utilizza l’espressione “whatcdog”, vale a dire “cane da guardia”. In Italia possiamo dire che è lo stesso o il giornalismo rischia di diventare solo il cane di compagnia della democrazia?”. A rispondere al quesito è Gugliemo Troina, giornalista della Rai Sicilia.
“Secondo le statistiche raccolte da Ossigeno per l’informazione – ha spiegato Troina – nel 2012, in Sicilia, sono stati 43 i giornalisti minacciati. Si tratta spesso di colleghi giovani, precari, il più delle volte corrispondenti. Io rimango legato ad un’idea di giornalismo romantico: andare, vedere e riferire. Dunque la definizione di watchdog mi sembra particolarmente pertinente. Ho cominciato a scrivere nel 71 a Catania e vivevo una condizione estremamente difficile in quanto nella città, da sempre, ha imperato una monocultura giornalistica: era un periodo in cui se una notizia non usciva su “La Sicilia” non era notizia. E fino al 78 di mafia a Catania non se ne parlò, eppure in quegli anni la mafia fece 700 morti”.
Esiste un vero e proprio pluralismo dell’informazione? Si può definire libera l’informazione in un Paese in cui un giornalista viene minacciato perché prova a fare il proprio lavoro?
Ed esordisce con una citazione di Thomas Mann, Antonio Roccuzzo giornalista di “La7”. “Lo scrittore tedesco – afferma Roccuzzo – diceva: “la vera libertà di stampa significa dire alla gente ciò che la gente non vuole sentirsi dire. Fava mi ha insegnato che, in fondo, un giornalista deve essere diseducato e poco conciliante con i poteri che lo circondano. In questa città, invece, la stampa ha taciuto troppo a lungo e forse continua a farlo, valutando le notizie e incentivando le cattive abitudini della cittadinanza che si autorappresenta anche grazie al sostegno della stampa stessa. I problemi di Catania hanno origine esattamente 30 anni fa quando si respirava un’atmosfera d’immobilità e di silenzio, quando Falcone nell’82 spiccò il mandato di cattura per la strage di via Carini “La Sicilia” scrisse dopo due giorni il nome di Santapaola. In questa città c’è bisogno di aria nuova e non sarà un caso se all’interno del Tribunale etneo, oggi, ci sono magistrati che vengono da altrove. Il giornalismo d’inchiesta si attua soprattutto nel momento in cui si viene a creare la competizione tra testate, in una città in cui vi è solo un palazzo stenta a decollare”.
A concludere l’incontro è stata Maria Rosaria Capacchione, giornalista de “Il Mattino” “Raccontare un omicidio – ha detto – è monotono in quanto è fatto di un’arma, di una vittima, di un luogo e della vita della vittima. A me è sempre interessato, invece, il perché. In questo cercare di raccontare i motivi di una storia mi sono incrociata con la verità, con gli affari che nessuno ha ancora citato, con le sentenze di dubbia origine depositate rigorosamente tra la fine di luglio e gli inizi di agosto quando i cancellieri, le parte offese e i giornalisti sono in ferie”.
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23 Maggio 2013, 21:32