08 Giugno 2014, 09:50
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E’ sufficiente percorrerne le strade per avvertire la sensazione di una città contesa. Non è la Berlino sullo sfondo della Guerra Fredda sapientemente descritta nei romanzi di Le Carrè; non ci sono spie coraggiose, amori impossibili da consumare furtivamente aldilà della cortina di ferro né improbabili fuggiaschi o scaltri doppiogiochisti. Vi sono, però, altrettante pedine che si muovono attraverso uno scacchiere invisibile, fatalmente attratte da un destino incurante delle vicende individuali da sacrificare sull’altare del bene comune.
Come Berlino nel dopoguerra, Palermo oggi appare una città divisa, contesa, chiusa. La Palermo Felicissima di un tempo dimostra di essere in piena emergenza ed i suoi abitanti ne offrono una versione parossistica al ritmo sincopato dettato dalle iniziative intraprese nel tentativo di ripristinare la normalità perduta. Tutto sembra dover essere vissuto in controtendenza, cosicché i propositi astrattamente condivisibili dell’amministrazione cedono inesorabilmente il passo alla consapevolezza che l’attuazione di un virtuoso compromesso tra le istanze dei singoli e la tutela degli interessi collettivi è, evidentemente, un obiettivo troppo ambizioso, con la conseguenza di dover ripiegare in mere strategie di contenimento se non di vera e propria contrapposizione.
Le vicende di cronaca quotidianamente evidenziano un braccio di ferro tra chi le regole è chiamate a scriverle e chi, di contro, ad osservarle in una irriducibile contrapposizione tra le ragioni degli uni e degli altri. I singoli individui appaiono intenti a conquistare avamposti da difendere strenuamente dalle interferenze altrui in balia di iniziative estemporanee dettate dall’emergenza che ormai sembra essersi impadronita dell’anima della città. Parola d’ordine: chiudere. Mondello, Parco della Favorita, Centro Storico: una città divisa in zone, un balletto frenetico di limitazioni, restrizioni, sanzioni, dinanzi alle quali i cittadini, come in un formicaio, si ritrovano a vagare freneticamente tra un divieto e l’altro, senza meta, senza motivo.
Paradossalmente il tentativo di aprire la città ai suoi abitanti è di fatto attuato mediante l’innalzamento, ovunque, di barriere: all’iniziativa commerciale, alla circolazione, alla fruizione degli spazi pubblici in uno scenario che, lentamente ma inesorabilmente, sembra trasformarsi in una lotta senza quartiere tra un’amministrazione eccessivamente rigorosa e zelante ed una cittadinanza da sempre insofferente alle regole del vivere comune, indifferente alla partecipazione, alla condivisione di strategie di intervento e progettualità.
Si respira illegalità spiccia, diffusa in modo così capillare da interessare in modo trasversale più o meno tutti a dispetto dell’indulgenza alla quale cediamo ogni qual volta ci illudiamo di essere diversi, e migliori, rispetto a come ci comportiamo. Palermo comincia ad assumere l’aspetto di una città che si ripiega in se stessa come a volersi proteggere, spesso a ragione, dai suoi stessi abitanti. Chiudere, limitare, innalzare barriere, lascia impregiudicata la questione di fondo in merito a ciò che si nasconde all’interno di quei perimetri alla cui salvaguardia sono dislocate sparute e confuse pattuglie di vigilantes che ricordano un checkpoint più che un varco di ingresso ad una città che vuole aprirsi ai cittadini.
Fuori, caos, proteste, tentativi di aggirare i divieti e le restrizioni, di trovare percorsi alternativi, di millantare residenze, amicizie, drammi familiari, implorando permessi e concessioni ma dentro nulla è cambiato, e questo segna la differenza tra un varco ed una barriera. Quando manca un fulcro intorno al quale far ruotare il volano dell’integrazione e del senso di appartenenza ad una comunità cittadina continua a regnare incontrastata l’anarchia e quei luoghi bipolari diventano crocevia di interessi contrapposti in ciò che costituisce l’anticipazione del ghetto: semplice barriera indifferente alle sorti di chi sta dentro e di chi, invece, è confinato al di fuori. In quella che è la consueta ed ormai quasi rassicurante carrellata di orrori cittadini ecco un disinvolto proliferare di occupazioni, dalle intenzioni più o meno nobili e condivisibili ma tutte, indistintamente, segnate dall’assenza di servizi ed offerte alternative.
Mentre una dopo l’altra vediamo capitolare le ultime vestigia dell’imprenditoria cittadina, dinanzi alle saracinesche chiuse che stonano come un occhio pesto sul volto della città, proliferano le bancarelle, ultimo beffardo affronto in nome di un abusivismo militante. Strenuamente sopravvissute alla lotta senza quartiere lanciata contro i dehors quelle sgangherate offerte ad una insaziabile bramosia di shopping a basso costo sembrano rivendicare l’appartenenza a pieno titolo al rinnovato tessuto urbano di una città trasformata ed ormai irriconoscibile. Oltraggiata pressoché ovunque dall’occupazione selvaggia del suolo pubblico alla quale riserviamo, però, la consueta ed ipocrita indulgenza ogni qual volta il fenomeno acquista tonalità esotiche a fronte delle sollevazioni popolari che desta l’analogo fenomeno ove interessi i mal tollerati “locali”. Dinanzi all’immagine di una città assediata dai suoi stessi abitanti, le iniziative adottate cominciano ad assumere l’immagine di un fortino abbandonato nel deserto: quattro mura ad offrire protezione al nulla in una Palermo che prova ancora una volta a nascondere sotto il tappeto la polvere della propria inefficienza.
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08 Giugno 2014, 09:50