02 Dicembre 2021, 06:21
3 min di lettura
I figli dello spaccio, coinvolti nelle ultime vicende di cronaca, potrebbero essere tolti alle famiglie. Se ne discute ed è naturale che si rifletta per specifici casi gravi: la Procura per i minorenni sul punto è giustamente cauta. Ma don Ugo Di Marzo, parroco dello Sperone, avverte: “Se ci sono davvero situazioni di rischio, a mali estremi, estremi rimedi. In caso contrario, dobbiamo fare altri discorsi. Qui serve la prevenzione. Occorrono progetti di crescita e di investimento presso le famiglie che devono essere sostenute. In ambito familiare i piccoli sono rispettati. Ci vuole un esercito di educatori. Non servono idee, sicuramente in buonafede, che accrescerebbero l’odio nei confronti delle istituzioni, provocando traumi insanabili”. E alcuni tra i figli della città, con il portafoglio pieno, magari in cerca dello sballo? Non sono forse il prodotto di un fallimento? Nessuno ha niente da dire alle rispettive famiglie? C’è un codice penale da seguire, ma c’è anche la nostra capacità di guardare nella linea sottile dei ‘buoni e dei cattivi’, se vogliamo metterla su questo piano. Chi è più responsabile?
I figli dello spaccio vivono in periferia. Che non è la città. E’ città dove ci sono i servizi, oppure dove almeno puoi lamentarti, se non ci sono. E’ periferia una distesa di case nel nulla. E, nonostante gli sforzi di tanti, devi stare zitto. Perché la periferia non è la città. I figli dello spaccio vedono confezionare le porzioni di droga a casa, magari in cucina, sul tavolo, accanto alla pasta. Ed è talmente familiare come dettaglio che non possono cogliere l’orrore. La droga è morte e rovina. Ma i figli dello spaccio questo non lo sanno. Come fa a essere il male qualcosa che sta a tavola? I figli dello spaccio avrebbero i numeri per diventare avvocati, giornalisti, medici, professori. In pochi ci riescono, troppo pochi: infatti sono un’eccezione. Il famoso ascensore sociale è bloccato ai piani alti. Per questo i figli dello spaccio seguono spesso il destino, diventando padri e madri dello spaccio. Ma saranno sempre bambini un po’ impauriti in fondo al loro cuore.
I figli della città vivono nella città. Da grandi diventeranno professionisti come papà e mamma. Perché loro possono prenderlo quell’ascensore. Vivono in quella parte garantita che può permettersi i diritti perché ha la cultura per riconoscerli e i mezzi per difenderli. Sanno che cos’è il bene e che cos’è il male, anche se sono un po’ confusi dalla grande mole di informazioni. Sanno che la droga è morte, che spacciare è reato oltre che peccato. Anche loro resteranno sempre bambini un po’ impauriti in fondo al loro cuore, per via del frastuono che c’è intorno. Ma potranno corazzarsi nel modo legittimo. Potranno scegliere. Potranno mettere a frutto intelligenza e sensibilità. Qualcuno andrà nelle periferie per cercare di dare una mano. Qualcuno ci riuscirà. Qualcuno si ritrarrà scottato dal fuoco della sconfitta.
Ogni sera, in una piazza della droga, i figli dello spaccio e i figli della città si incontrano. I primi vendono il male a cui non sanno dare un significato morale. I secondi saprebbero darlo, ma sono legati, spesso, nelle catene della dipendenza. Prigionieri, i figli dello spaccio. Reclusi, i figli della città. Si ritrovano ogni sera, da qualche parte, scambiando poche parole per contrattare. E vorremmo che si parlassero davvero, che si mettessero d’accordo per fare, finalmente, la rivoluzione. Per aiutarci a dimenticare che Palermo, come altrove, non è una città per figli.
Pubblicato il
02 Dicembre 2021, 06:21