Il silenzio di una città che ancora deve svegliarsi è interrotto dalle sirene delle gazzelle dei carabinieri e dal bagliore blu dei loro lampeggianti.
Notte di arresti a Palermo. Più di 180 ordinanze di custodia cautelare assestano un durissimo colpo alla mafia. Capimafia, affiliati ed estorsori fermati ed arrestati. Il clima è di esultanza: un’altra vittoria dello Stato, un ulteriore riconoscimento dell’intenso impegno di magistratura e forze dell’ordine.
Eppure, all’iniziale e comprensibile entusiasmo subentra la consapevolezza, la presa di coscienza che Cosa Nostra è ancora viva ed attiva, protesa ad acquisire nuove posizioni e consolidare quelle tradizionali.
Dalle indagini emerge lo spaccato di un’organizzazione dotata di una notevole forza di resilienza, che nel perseguimento delle sue tradizionali attività criminose dimostra grande adattabilità e capacità di fare sistema.
I capimafia in carcere riescono a comunicare all’esterno ed organizzare summit in videochiamata utilizzando forme avanzate di tecnologia.
Discorsi protesi a rivitalizzare il sistema mafioso sul territorio con la selezione di nuovi adepti, il mantenimento dei carcerati e delle loro famiglie, la pianificazione delle usuali attività illecite, estorsioni, appalti, traffico di stupefacenti, business delle scommesse on line.
Un contesto messo a nudo dalle indagini che rivela il radicamento sociale di Cosa Nostra, mai reciso davvero, nonostante la costante azione repressiva dello Stato.
Il pensiero corre alle guerre di mafia, alle tante, troppe, vittime della violenza mafiosa, agli uomini delle istituzioni che hanno osato sfidarla per riaffermare il potere dello Stato e delle sue Istituzioni democratiche.
Sembra passato un tempo lunghissimo, eppure, ancora oggi, ci ritroviamo a vivere in una terra che continua ad apparire in parte irredimibile.
1982. L’omelia del cardinale Pappalardo ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro. Colpisce al cuore la Sicilia ferita.
1993. Il grido alla conversione dei mafiosi da parte di Giovanni Paolo II, aggrappato alla croce nella maestosità della Valle dei Templi.
2024. L’accorato appello dell’arcivescovo Lorefice, nel corso delle celebrazioni per Santa Rosalia, a non abbandonare Palermo “ai perversi uomini di mafia”.
Già nel 1991 Giovanni Falcone nel libro conversazione con Marcelle Padovani, paragonava l’ingresso nell’organizzazione mafiosa a una barbarica iniziazione religiosa, “non si cessa mai di essere preti, né mafiosi”.
Ancora oggi, nel 2025, il procuratore Maurizio de Lucia nel corso della conferenza stampa sull’ultimo blitz ci ricorda che “da Cosa nostra si esce in due modi: o collaborando con la giustizia o con il fine vita. Altrimenti in Cosa nostra si rimane”.
Voci di ieri e voci di oggi. Sempre la stessa mafia, sempre lo stesso cancro.
Ed allora, come difenderci? Come difendere la nostra martoriata terra? Certamente affermando l’autorità dello Stato.
Ne furono convinti i due giovani studiosi Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino che intrapresero un lungo viaggio in Sicilia, terra di estrema tensione sociale ed acuta recrudescenza criminosa, della quale descrissero in un due libri denuncia le endemiche problematicità. Era il 1876.
Allo stesso modo, Carlo Levi, attraverso il resoconto dei suoi viaggi compiuti in Sicilia nei primi anni ’50, quando scoprì una terra ancora confinata nel Medioevo: finché lo Stato è “straniero”, della mafia non può fare a meno. La scarsa fiducia nelle Istituzioni crea malcontento, alimenta comportamenti contrari all’etica della responsabilità, genera un terreno fertile in cui la mafia prospera e si alimenta.
Eppure lo Stato ha agito. Ha agito con gli strumenti della democrazia, con le leggi, con i processi, con presìdi e strumenti che hanno consentito, seppure faticosamente, di raggiungere risultati straordinari sul terreno della repressione.
Ma il blitz di qualche giorno fa ci dice che i mafiosi sono ancora tra noi, che Cosa Nostra si sta riorganizzando e ambisce a tornare forte e potente.
Che esercita un grande potere di fascinazione sui giovani che non fatica a reclutare, attirati come sono da facili guadagni e, soprattutto, dalla posizione di rispettabilità che assumono frequentando e relazionandosi con gli uomini di Cosa nostra.
Un totale ribaltamento di valori, l’apoteosi della subcultura, nutrimento e linfa del fenomeno. E un giovane che si accosta alla mafia, ciascuno di loro, costituisce una pesantissima sconfitta collettiva.
E ancora, la sua forza è evidente non solo nella organizzazione interna ma anche e soprattutto nella intatta capacità di stabilire relazioni ed assicurarsi coperture.
E ora? Cessato il clamore tornerà il silenzio?
La nostra terra merita di essere libera. Merita di essere terra di opportunità, non di sopraffazione. Merita di essere ricordata per le sue bellezze, non per i suoi dolori. E ciò sarà possibile tenendo vivo il coraggio dello sdegno, della protesta e della denuncia.
Per rivendicare la dignità dei tanti cittadini onesti, che in questa terra vivono, lottano e non vogliono andare via.