Palermo, imprese Cavallotti dissequestrate "ma restano le macerie"

Palermo, imprese restituite ai Cavallotti: “Restano macerie”

La Cassazione rigetta il ricorso della Procura generale
MISURE DI PREVENZIONE
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PALERMO – Il ricorso della Procura generale è stato rigettato. La Corte di Cassazione conferma, e in maniera definitiva, il dissequestro delle imprese degli eredi degli imprenditori Cavallotti di Belmonte Mezzagno.

“Restano solo le macerie”

“Dopo anni di amministrazione giudiziaria che hanno portato al fallimento rimane la rabbia perché tutto è distrutto, le società sono fallite o in liquidazione”, spiega uno dei legali della difesa, l’avvocato Rocco Chinnici.

È definitivo il dissequestro delle imprese Euroimpianti plus, Tecno Met, Energy Clima Service, 3C Costruzioni, Eureka, Vmg Costruzioni e Servizi, Prorison, Immobiliare Santa Teresa e di tutti i relativi beni aziendali.

Alla Immobiliare sono intestati gli unici beni rimasti in piedi. Si tratta di alcuni immobili a Ponte Buggianese, in Toscana.

“Un processo su dei beni morti”

“Stiamo facendo un processo su dei beni morti”, disse nella sua arringa l’avvocato Chinnici, che fa parte del collegio difensivo insieme agli avvocati Salvino Pantuso, Patrizia Aucelluzzo, Luca Inzerillo e Baldassare Lauria. Il legale parlò di “cancro della giustizia”.

Nel 2019 il Tribunale per le misure di prevenzione ha confiscato i beni ai fratelli Vincenzo, Salvatore Vito e Gaetano Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno. Le indagini patrimoniali, iniziate nel lontano 2011, si estesero anche ai beni degli eredi che furono sequestrati dal collegio allora presieduto da Silvana Saguto, l’ex giudice radiato e condannato in primo e secondo grado a Caltanissetta.

I fratelli Vincenzo, Salvatore Vito e Gaetano Cavallotti finirono sotto processo. Il reato di turbativa d’asta fu dichiarato prescritto, mentre arrivò un’assoluzione nel merito dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

I fratelli Cavallotti

Secondo il collegio d’appello, non era stata raggiunta la prova della loro colpevolezza, ma erano emersi elementi che ne tracciavano la contiguità con i boss Ciccio Pastoia e Benedetto Spera, fedelissimi di Bernardo Provenzano, grazie ai quali avrebbero ricevuto alcune importanti commesse nel settore della metanizzazione. Tanto bastò per sottoporli a misure patrimoniali e personali perché ritenuti “socialmente pericolosi”.

Le prime indagini riguardarono le Comest e Imet, citate nella corrispondenza di Bernardo Provenzano: dovevano pagare il pizzo per i lavori di metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In un altro pizzino era Giovanni Brusca a scrivere a Provenzano per affrontare il tema della messa a posto dell’impresa dei Cavallotti che stava realizzando la metanizzazione a Monreale.

Il sequestro esteso agli eredi

Finite sotto sequestro e in confisca la Imet e la Comest, secondo la Procura, i fratelli Cavallotti avrebbero dirottato i loro interessi sulle imprese intestate fittiziamente a figli e nipoti (“Fateci lavorare”, dissero nel 2014 a Livesicilia). Un modo per sfuggire alle misure patrimoniali e continuare a gestire gli affari. Un’impostazione che non ha retto né in primo né in secondo grado.

Nel corso del processo di appello era stato chiamato a testimoniare anche il collaboratore di giustizia Salvatore Bisconti, che del mandamento mafioso di Belmonte Mezzagno è stato il capo. Bisconti “ha espressamente escluso ulteriori rapporti intercorsi tra i fratelli Cavallotti e gli esponenti mafiosi di Belmonte Mezzagno – quali Benedetto Spera, capo della famiglia mafiosa di quel centro, e
Giovanni Vaglica, capo decina della stessa famiglia – successivi al sequestro delle società dei Cavallotti e all’arresto di Spera nell’ambito dell’operazione denominata ‘Grande Mandamento’”.

I giudici scrivevano che “agli atti non vi è prova alcuna della condivisione, da parte dei soci ‘palesi’ con i pretesi soci ‘occulti’ degli utili derivanti dall’attività economica della società”.

Parlarono di “circolarità della prova”. Si giustificava un provvedimento giudiziario ponendovi a fondamento qualcosa che doveva essere dimostrato.


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