Palermo, inchiesta sui rapporti fra il boss e il gestore del Kalhesa

Palermo, inchiesta sui rapporti fra il boss e il gestore del Kalhesa

Fari accesi su Sandro Capizzi, arrestato nel blitz del Ros

PALERMO – L’ipotesi è che l’imprenditore possa avere aiutato il boss Sandro Capizzi a nascondere alcuni interessi economici. C’è anche il nome di Santo Castiglione, uno dei gestori del Kalhesa, noto locale al Foro Italico, nell’inchiesta sulla mafia di Villagrazia.

Il giudice per le indagini preliminari Fabio Pilato ha chiesto un ulteriore approfondimento investigativo sulla posizione di Castiglione. Il quadro finora ricostruito dalla Direzione distrettuale antimafia, infatti, non è stato ritenuto sufficiente per dimostrare che una parte delle quote della “Gi.Ma”, una srl che distribuisce caffè, sia in realtà di Capizzi.

Di sicuro il mafioso, figlio dell’ergastolano Benedetto, lavorava per la società e sono stati documentati una serie di incontri con Castiglione. L’assunzione consentì a Capizzi di potere rientrare nel 2015, a Palermo, in un momento in cui era sottoposto al divieto di soggiorno in città.   

Sebbene egli abbia effettivamente iniziato a lavorare presso la Gima, assumendo un ruolo attivo non compatibile con quello del semplice dipendente – scrive il giudice – nulla è dato sapere sul momento genetico del conferimento del capitale”. Gli inquirenti annotano che in concomitanza con il rientro di Capizzi in Sicilia il socio di Castiglione ha ceduto il 50% della società alla madre dello stesso Castiglione. I sospetti, però, non bastano.  

Di Castiglione si parlò già nel 2010. Era l’anno del blitz “Eleio” che svelò il ruolo di capomafia di Borgo Vecchio ricoperto da Antonino Abbate. All’interno di una sala scommesse di via dello Spezio, Castiglione chiedeva ad Abbate di potere conferire con Gregorio Di Giovanni, reggente del mandamento di Porta Nuova che nel 2018 partecipò alla riunione della nuova cupola: “Glielo possiamo prendere un appuntamento a quello a… Gregorio? Il tignuso… quello del Capo”.

Voleva discutere di “un debito a suo carico – scrivono gli investigatori – la cui estinzione era pretesa da soggetti originari del quartiere palermitano del Capo, ma di contro lui riteneva non sussistere”. In particolare, Caastiglione ”pretendeva che Abbate chiedesse a Di Giovanni, in virtù della sua competenza per territorio, di maltrattare la controparte”.

Ora il nome di Castiglione fa capolino nelle intercettazioni dei carabinieri del Ros. Il lavoro alla Gima consentì a Capizzi di tornare a Palermo con l’obbligo di soggiornare in città. Non più il divieto, dunque. Al giovane boss serviva “una lettera d’intenti per la previsione del lavoro… per la disponibilità al lavoro… che appena scendo dobbiamo iniziare a lavorare”.

Castiglione era dubbioso perché “l’unica problematica è che se loro richiedono il camerale risulta la società inattiva”. Sandro Capizzi sminuiva i rischi, sostenendo che un eventuale controllo sarebbe stato meramente burocratico: “no… quale camerale. Ma che stai dicendo… loro non ti chiederanno più niente…”.

L’assunzione è un dato di fatto. Sul coinvolgimento societario di Capizzi proseguono le indagini del procuratore aggiunto Paolo Guido e del sostituto Dario Scaletta.


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