29 Aprile 2023, 15:04
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PALERMO – Confermata la confisca dei beni di Maria D’Anna e restituito l’intero patrimonio milionario alle figlie, Monia ed Antonella Brancato. La sentenza della Corte di Appello per le misure di prevenzione di Palermo è stata emessa lo scorso novembre. Da pochi giorni è diventata definitiva. È passata la linea difensiva degli avvocati Raffaele Bonsignore, Giovanni Di Benedetto ed Ernesto D’ Angelo.
ll cuore del processo patrimoniale riguardava la Gasdotti azienda siciliana. La “cassaforte dei mafiosi” l’avevano definita i giudici della Corte di Cassazione nella sentenza sul tesoro di don Vito Ciancimino, interfaccia di Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Dopo i soldi dell’ex sindaco e del tributarista Gianni Lapis, la Procura di Palermo nel 2013 ottenne il sequestro del patrimonio degli eredi del socio Ezio Brancato, la moglie Maria D’Anna e la figlia Monia (coinvolto pure il marito e avvocato spagnolo Julio Quintas Casellas). Nel 2018 arrivò la confisca di primo grado di società, attività commerciali, immobili di lusso e disponibilità finanziarie per un valore stimato in poco meno di 50 milioni di euro. Furono, invece, esclusi i beni di un altra figlia di Brancato, Antonella, non ritenuta socialmente pericolosa.
È stato il grande affare del gas. Nel 1981 nasceva la Gasdotti Azienda Siciliana fondata da due gruppi imprenditoriali. Uno faceva capo a Lapis. L’altro a Brancato. Grazie all’appoggio di Cosa Nostra l’azienda ottenne il via libera per realizzare la rete e distribuire il metano in settantaquattro comuni di Sicilia e Abruzzo. Nel 2004, prima di essere venduta per 115 milioni di euro agli spagnoli della Gas Natural, la società era diventata un colosso.
Fu Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito (lo scorso febbraio il suo patrimonio è stato confiscato, ma non è più socialmente pericoloso) a rivelare la presenza societaria di Brancato, ex consuocero dell’ex procuratore nazionale antimafia Giusto Sciacchitano. Secondo l’accusa, la vendita agli spagnoli avrebbe permesso agli eredi dell’imprenditore di ”ripulire” il patrimonio. Nel 2016 i finanzieri arrivarono fin nei caveau di alcune banche del principato di Andorra per scovare e sequestrare un ulteriore tesoretto stimato in sei milioni di euro, fra denaro e gioielli.
Per Maria D’Anna è stata esclusa la pericolosità sociale qualificata dell’appartenenza mafiosa. Innanzitutto perché la Gas era sostanzialmente in mano a Gianni Lapis, neppure Vito e Massimo Ciancimino riuscivano a contrastarlo. I contatti di Maria D’Anna, che fu vice presidente del Consiglio di amministrazione, con la mafia scaturirono solo dalle estorsioni subite.
“Nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno fornito informazioni relative alla gestione delle società del gruppo gas nel periodo successivo alla scomparsa di Ezio Brancato – si legge nella motivazione del provvedimento del collegio presieduto da Aldo De Negri – non emerge neppure un episodio nel quale Maria D’Anna avrebbe partecipato a un incontro, una riunione con esponenti mafiosi, né, comunque,risulta in alcun modo che la proposta abbia influito in qualche modo sulle scelte operative societarie in modo da favorire cosa nostra”.
“Dunque, deve ritenersi che – si legge ancora – a fronte di una partecipazione alle decisioni strategiche aziendali che rientra nella fisiologia dei rapporti tra proprietà del capitale e amministrazione della società nessuna specifica vicenda risulti aver visto Maria D’ Anna rapportarsi con esponenti di cosa nostra al fine di ottenerne l’interessamento per l’affidamento alla Gas spa di commesse per lavori pubblici o, comunque, per l’eliminazione di eventuali ostacoli burocratici nell’esecuzione di tali lavori”.
Maria D’Anna è stata condannata in sede penale per intestazione fittizia di beni. Poco dopo il primo sequestro del 2013 trasferì quote societarie a Julio Quintas Casellas nel principato di Andorra. Denaro in contanti e gioielli notevole valore finirono in una cassetta di sicurezza sempre intestata al genero nel paradiso fiscale. Si parla complessivamente di una cifra superiore a 2,6 milioni di euro finito. Il tesoretto va in confisca perché la pericolosità sociale sussiste.
Monia Brancato, invece, ottiene la resstituzione di tutto il suo patrimonio perché non sussistano elementi sufficienti a qualificarla come “socialmente pericolosa”. Anche lei fu vittima del pizzo e quasi tutti i rapporti commerciali sono avvenuti in epoca antecedente alla data in cui Monia Brancato ha assunto qualifiche dirigenziali nella Gas. E quelli in cui c’è la regia mafiosa sono avvenuti in epoca successiva alla cessione delle quote della sua famiglia.
Pertanto è stata revocata la confisca delle società Ambra srl, Victoria srl, Emb srl, Chloe srl, B&B sas, Soproac; quote delle società La Cometa srl, Gr. Gioielli, srl, Anrichità srl; una cinquantina di immobili (fra cui l’attico in cui i Brancato vivono in piazza Verdi), magazzini, appartamenti ville e negozi per lo più a Palermo, ma anche ad Arzachena in Sardegna e in Spagna; decine di conti correnti, fondi comuni di investimento, polizze vita, gioielli e preziosi.
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