22 Maggio 2022, 06:03
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PALERMO – È da Matteo Messina Denaro che bisogna ripartire. Anzi, proseguire nella faticosa strada verso la piena verità sulle stragi di mafia. Non solo perché Messina Denaro è l’ultimo padrino latitante, ma soprattutto perché è stato l’ultimo capomafia condannato per gli eccidi di Capaci e via D’Amelio. Ergastolo, tre decenni dopo.
Attorno al capomafia trapanese si addensano misteri, s’avanzano “inquinatori di pozzi”, uomini dei servizi segreti e misteriosi scrivani. Il magistrato Massimo Russo, che sulla mafia trapanese ha indagato a lungo, chiamato a testimoniare in un processo nei mesi scorsi, ha invitato il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara a dire la verità.
Ed ecco il punto di partenza. Calcara si pente nel 1991. Non fa il nome di Matteo Messina Denaro, tirato in ballo per la prima volta dal palermitano Balduccio Di Maggio nel 1993. Quando un altro uomo d’onore trapanese decide di rompere con Cosa Nostra, il mazarese Vincenzo Sinacori, la prospettiva cambia definitivamente.
Sinacori dirà che per coloro che erano veramente addentro alle dinamiche di Cosa Nostra era impossibile, già allora, non conoscere il peso del latitante. C’era pure lui, infatti, nella “Supercosa” che “decise le stragi a Castelvetrano tra il 10 ottobre e il 2 novembre 1991”. Era sempre al fianco del padre, don Ciccio Messina Denaro. Eppure Calcara dice di non conoscerlo.
Gabriele Paci, attuale procuratore di Trapani, nel corso del processo di Caltanissetta chiuso con la condanna di Messina Denaro, aveva definito Calcara un “inquinatore di pozzi”. Si riferiva al fatto che avesse indicato come capomafia di Castelvetrano l’ex sindaco Antonio Vaccarino. Calcara lo accusò di essere stato il mandante dell’omicidio di un altro primo cittadino, Vito Lipari. Era una bugia.
Dal 1991 al 1993, dunque, quando si avviano le prime e importanti indagini sulla mafia trapanese Messina Denaro sfugge ai radar. Il 2 giugno 1993 diventerà ciò che è tutt’ora, un latitante eternamente in fuga.
Nel caso di Calcara sembra di rivedere, con le dovute differenze, la storia di Vincenzo Scarantino, creduto per decenni da pubblici ministeri e giudici anche di fronte all’inverosimile racconto nel quale si piazzava fra gli stragisti di via D’Amelio. È stato il tradimento più grande del metodo Falcone di cui in tanti si proclamano eredi. Poi è arrivato Gaspare Spatuzza a svelare che nelle indagini era saltato il ruolo di organizzatori e promotori svolto dai fratelli Graviano di Brancaccio.
Nei racconti di Calcara, alcuni dei quali saranno picconati nei processi – non tutti, però – c’è un drammatico presagio. Dice, infatti, di essersi pentito per sottrarsi all’incarico di uccidere Paolo Borsellino con un fucile di precisione. Anticipa, seppure con modalità diverse, la tragica fine del magistrato allo stesso Borsellino che raccoglie la sua confessione sul delitto Lipari.
Le accuse di Calcara costano a Vaccarino, deceduto l’anno scorso, l’arresto e il trasferimento a Pianosa. Nel 2003 si torna a parlare di Vaccarino. Viene fuori la storia del carteggio con Matteo Messina Denaro. Il primo si firma “Svetonio”, il secondo “Alessio”. Vaccarino finisce nei guai, ma ha in tasca il documento che lo scagiona. Lavora per i servizi segreti. Il rapporto epistolare serviva a stanare il latitante.
Tutto vero, tutto confermato dal generale e direttore del Sisde Mario Mori che ne aveva parlato nel 2004 all’allora procuratore di Palermo, Piero Grasso. Si scopre che c’era un altro canale parallelo. I servizi segreti in contemporanea cercarono un contatto con Carmelo Gariffo, nipote di Bernardo Provenzano.
Il carteggio Svetonio-Alessio è ampio. Si inizia parlando di mafia e si finisce per toccare temi politici ed esistenziali. Non è, però, la mano di Messina Denaro a scrivere. Una perizia lo ha escluso, comparando gli scritti con quelli certamente autentici del latitante: la lettera ad una fidanzata, Francesca, e una pagella scolastica.
Non è il lattante a scrivere, e forse neppure a pensare il contenuto delle lettere che debordano nelle loro architetture linguistiche. Quando si parla di mafia, secondo gli esperti, è farina del suo sacco. Scrive cose che solo lui può conoscere. Gli altri temi sarebbero argomenti lontani dalla sue corde. Dunque potrebbe esistere non solo uno scrivano, ma anche una sorta di ideologo ombra.
Lo scrivano non ha tenuto solo la corrispondenza con Vaccarino, ma pure quella con Bernardo Provenzano, rinvenuta a Montagna dei Cavalli, e con Salvatore Lo Piccolo i cui pizzini furono trovati addosso al boss di San Lorenzo il giorno dell’arresto a Giardinello.
Non ha scritto, però, la lettera firmata Messina Denaro fatta pervenire nel 1998 ai presidenti delle Corti che lo stavano processando e con la quale revocava l’incarico di difensore all’avvocato Celestino Cardinale. Dunque, gli scrivani sono due.
Due persone di cui il latitante si fida ciecamente, mentre trascorre la sua vita in latitanza. Se Calcara avesse inquadrato subito, nel 1991, il suo ruolo le cose probabilmente avrebbero avuto uno sviluppo diverso.
È andata diversamente, e non solo quella volta. Il 15 gennaio del 1993, giorno dell’arresto di Totò Riina, si poteva decapitare l’intera cupola mafiosa. I pentiti ci diranno che Riina e il suo autista Salvatore Biondino stavano andando a casa di quest’ultimo dove il capo dei capi aveva convocato anche i fratelli Graviano e Messina Denaro. Le bombe continuarono ad esplodere in giro per l’Italia. Messina Denaro è ancora latitante.
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22 Maggio 2022, 06:03