27 Febbraio 2023, 19:32
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PALERMO – Davide Romano, Francesco Nangano Giuseppe Dainotti: sono ancora tre gli omicidi irrisolti a Palermo. Su un quarto, quello di Giuseppe Calascibetta, si è fatta luce solo in parte
Giusepe Dainotti è stato ammazzato il 23 maggio 2017 fa in via d’Ossuna, rione Zisa, alle 8 di mattina mentre era in bicicletta. È stato affiancato da uno o due uomini in sella ad uno scooter. Una sola telecamera inquadrava la via. Ha immortalato la ruota di uno scooter Honda Sh, che si allontanava in direzione del Papireto, per poi imboccare una delle prime traverse a sinistra. E si vedeva pure una scarpa da tennis. Del killer, però, i poliziotti della Squadra mobile potrebbero possedere il Dna. Sull’asfalto c’era una traccia di saliva mista a sangue che non appartengono alla vittima. Dainotti potrebbe avere pagato con la vita la voglia di tornare a comandare dopo anni di carcere.
Già nel 2010 si manifestarono delle tensioni. Dopo l’arresto di Gregorio Di Giovanni, reggente del mandamento di Porta Nuova, al fratello Tommaso toccò sobbarcarsi il peso delle esigenze dei detenuti. Nel luglio 2010 il telefono di Tommaso Di Giovanni squillò. All’altro capo della cornetta c’era la zia Francesca Paola Dainotti, sorella dell’uomo assassinato in via d’Ossuna, nonché madre di Tommaso Lo Presti, altro pezzo grosso della mafia di Porta Nuova: “… allora io oggi neanche posso fare la spesa… a zia”. “Più tardi vengo…”, rispondeva Di Giovanni.
Nell’ottobre successivo a protestare era un’altra nipote di Dainotti, Anna Lo Presti, sorella di Tommaso. Al marito Salvatore Pispicia diceva: “… portò 400 euro per la settimanata di queste quattrocento euro… cento euro gliel’ho dati a mia madre per fargli la spesa, duecento euro l’ho portati al dentista che non gli portava soldi da qualche tre mesi al dentista, quanto restano… mi sono rimasti gli spicci”
L’uomo incaricato di “portare” i soldi sarebbe stato Vincenzo Coniglio che fino al suo arresto era un insospettabile parrucchiere di corso Calatafimi, ma faceva il cassiere dei fratelli Di Giovanni oggi entrambi in carcere. Gregorio avrebbe partecipato alla nuova commissione provinciale di Cosa Nostra, mentre Tommaso sta finendo di scontare una condanna.
Il 6 aprile 2011, in via Michele Titone, una strada residenziale nella zona di corso Calatafimi, c’è una Fiat Uno parcheggiata al centro della carreggiata. La scoperta è macabra, nel bagagliaio c’è il corpo di Davide Romano. È nudo, con le mani e i piedi legati, e un colpo di pistola alla nuca. La vittima era un picciotto del Borgo Vecchio che scalpitava per farsi largo tra le nuove leve della mafia. Silenzio assoluto per alcuni anni. Poi nel 2015 si pente Chiarello: “Io ero ad Oristano, ho fatto un colloquio, ho mandato a chiamare mia moglie ad un colloquio, perché io già ero pronto per la collaborazione, perché avevo tanta paura, il fatto che mi dovevano uccidere e poi mi volevo levare certe cose, che sapevo, sia di Romano, sia dell’avvocato Fragalà e di altre persone”.
Il pentito ha raccontato che Romano sarebbe stato torturato e giustiziato in un magazzino alle spalle del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Il destino riserva macabre coincidenze, visto che il magazzino si trova in via Scippateste. Nel corso di un interrogatorio Chiarello ha parlato del “ragazzo che ha ucciso a Davide Romano”.
Una frase ripetuta più volte mentre parlava dell’uomo che si sarebbe occupato di sostenere le spese della sua famiglia: “… per quanto mi riguarda a me, che mi faceva avere i soldi, tramite mia moglie, 750 euro”. Alla fine i soldi ricevuti come anticipo da Tommaso Di Giovanni, tramite Domenico Tantillo, raggiunsero la cifra di 2.500 euro. A fargli avere i soldi sarebbe stato il padre del ragazzo che avrebbe partecipato all’omicidio Romano. Il padre è noto alle cronache giudiziarie. Il figlio, invece, era rimasto sempre in posizione defilata. Un volto nuovo ma affidabile, almeno stando al racconto di Chiarello, che lo piazza nel gruppo che torturò e uccise Romano. Uno dei picciotti che rispose signorsì ad un pezzo grosso. “Lo zio Pietro è stato, Calogero Lo Presti… comprava la droga fuori dalla borgata”, litigavano “per il prezzo della droga ed aveva risposto male a Lo Presti”: ha raccontato Galatolo.
Sono state le microspie a svelare gli unici commenti sull’omicidio di Francesco Nangano. La sera del 16 febbraio 2013 i sicari lo uccidevano all’uscita di una macelleria di via Messina Marine. Gli intercettati erano Mariano Marchese e Gaetano Di Marco, titolare di un deposito di marmi e luogo dei summit del clan. Parlavano delle loro impressioni sul delitto: “… questo che hanno ammazzato?… un magnaccione … fimminaru… andava con cu e ghiè”. Nangano era stato pure avvisato: “Gli hanno bruciato… tutte cose”.
Poi Marchese ipotizzava che per il delitto potesse essere stata necessaria l’autorizzazione dei fratelli Graviano: “Può essere che fu un messaggio di Filippo… o di Giuseppe”. Forse l’autorizzazione è davvero arrivata dal carcere, ma non dai Graviano. La storia delle femmine celerebbe altri contesti legati al mondo della droga. In tutti i delitti i killer hanno mostrato accortezza. Accortezza e silenzio. Nessun commento o quasi.
Il commando che uccise Giuseppe Calascibetta, il 19 settembre 2011, era composto da quattro persone. Solo una è stata condannata. Fabio Fernandez si è auto accusato di un delitto che quasi certamente non gli sarebbe mai stato contestato. Era l’unico imputato. Per le altre tre persone di cui aveva fatto il nome non sono stati trovati i riscontri necessari per rinviarli a giudizio.
“Appena lo abbiamo raggiunto… dice sparaci in testa, sparaci in testa… ho sparato e ce ne siamo andati”, raccontò Fernandez
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