Palermo: ascesa e caduta di Scimò, boss di Brancaccio - Live Sicilia

Il ‘dottore’, gli scarcerati: l’impresario funebre divenne boss

Ascesa e caduta di Fabio Scimò, capomafia di Brancaccio

PALERMO – Fine gennaio 2015. Un uomo in sella ad uno scooter raggiunge un’agenzia di pompe funebri in via Amedeo D’Aosta, mandamento mafioso di Brancaccio. È Claudio D’Amore, che sarà successivamente arrestato per mafia e condannato a 17 anni.

Imputato a piede libero

Poco meno di un anno fa la Corte di appello, però, ha dichiarato nullo il decreto che aveva disposto il giudizio e ordinato l’immediata scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare. D’Amore, assieme ad un’altra decina di imputati, viene processato a piede libero. Tutta gente che ha rimediato condanne pesantissime in primo grado.

D’Amore ha un compito da assolvere in quel giorno di sei anni e mezzo fa. Deve incontrare Fabio Luigi Scimò, uomo d’onore della famiglia di Corso dei Mille da poco scarcerato per fine pena. Pietro Tagliavia, che in quel momento è il reggente del mandamento, ci tiene a fargli sapere che il clan è a sua disposizione.

Un segno di rispetto nei confronti di Scimò Quel rispetto che lo ha spinto fino al vertice del mandamento. Ieri Scimò è stato condannato a 22 anni, 10 mesi e 20 giorni di carcere.

“Se tu hai bisogno di me”

“Se tu hai bisogno di me, nel mio piccolo… dice… personale… siamo rimasti a piedi… di notte… mi chiami… quando vuoi venite a casa… con tua moglie… sali e vi prendete un caffè… perché lo sai… il bene che ti sei sentito con lui…”, dice D’Amore nel dialogo con Scimò captato dalle microspie piazzate dagli agenti della squadra mobile.

L’incontro in agenzia segna il passaggio di testimone fra Tagliavia e Scimò. Il nuovo reggente da quel momento in poi si muove cercando alleanze con i boss di altri mandamenti. Come Pietro Salsiera e Sergio Napolitano di Resuttana, Giovanni Sirchia di Passo di Rigano, Filippo Bisconti di Belmonte Mezzagno e Leo Sutera, rappresentante della provincia di Agrigento.

Summit mafiosi

Il pentito Salvatore Sollima lo indica fra i presenti ad una riunione convocata nel 2015 fra i boss di Bagheria e Brancaccio per mettere a posto delicate questioni di confine. I bagheresi si presentarono armati fino ai denti, ma non fu necessario usare le pistole calibro 38 e 7.65 che si erano portati dietro.

Il 3 luglio 2018 Scimò incontra Settimo Mineo, l’anziano boss che presiedeva la nuova commissione provinciale di Cosa Nostra. Si danno appuntamento in un’agenzia di pompe funebri in corso Calatafimi. C’è pure Salvatore Sorrentino, detto lo studentino, braccio destro di Mineo.

Lo strano incendio

Due anni prima, il 4 maggio 2016, davanti all’agenzia funebre sequestrata l’anno scorso su disposizione del questore Leopoldo Laricchia, si verifica un episodio mai chiarito. Vengono incendiate una Fiat Seicento e un Mercedes Vito. I mezzi sono intestati alla società di Giovanna D’Angelo, moglie di Fabio Scimò. L’agenzia invece è formalmente di proprietà di Pietro Di Marzo, genero del boss.

Ad appiccare le fiamme è Vincenzo Machì, condannato a due anni nello stesso processo che vedeva imputato Scimò. Una sfida al capomafia con un gesto eclatante di cui non è stato chiarito il movente.

Le telecamere del condominio dove abita Scimò filmano l’arrivò di Machì, pregiudicato per furti e rapine, al volante di una Fiat Punto per un sopralluogo e il successivo ritorno sul posto con un bidone di benzina. Di Marzo si attiva subito. Innanzitutto procurandosi le immagini del sistema di videosorveglianza del condominio.

La vicenda dell’incendio viene discussa nel corso del successivo 26 maggio in una riunione a cui parteciparono, oltre a Scimò, anche Filippo Bisconti, boss di Belmonte Mezzagno e oggi collaboratore di giustizia, e Giovanni Sirchia, uomo d’onore della famiglia di Boccadifalco-Passo dì Rigano, che ospitò la riunione della cupola, convocata nel maggio 2018 in una palazzina a Baida. L’incendio è diventata una questione grave che va risolta.

Qualche mese dopo, in agosto, ecco un nuovo segnale del potere di Scimò. I carabinieri del Ros pedinavano da tempo Giuseppe Gittadauro. Il “dottore” si era trasferito a vivere a Roma, ma non aveva interrotto i contatti con Scimò, rimasto a Palermo a reggere il mandamento, fino al giorno del suo arresto.


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