17 Settembre 2009, 19:06
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Lo Zen è vicino. Bastano meno di dieci minuti da viale Strasburgo per arrivarci. Per arrivare fra casermoni e palazzi fatti in serie. In un quartiere martoriato dalla criminalità, spesso teatro di raid vandalici. Come le aule della scuola “Giovanni Falcone”, incendiate a fine agosto e in fase di ristrutturazione. Una spesa imprevista che, come dice il Preside Domenico Di Fatta, divora i 50 mila euro stanziati dal ministero della Pubblica Istruzione per realizzare una palestra super attrezzata all’interno dell’istituto. Cifra stornata per porte, mattoni e infissi. Una doppia beffa per lo Zen. Un luogo roso dalla violenza, ma che ha voglia di cambiare. Dove spesso, però, professare il bene significa farsi dei nemici. Come è capitato al parroco del San Filippo Neri, nel giorno dell’anniversario della morte di don Pino Puglisi.
“Signorina è inutile, Don Miguel non parla con nessuno. Neanche i giornali ha letto. Il suo desiderio è che questa storia venga dimenticata”. Preferisce rimanere anonimo l’impiegato dell’Amia che mi fa accomodare su una panca, nella sala d’ingresso della parrocchia San Filippo Neri. Non conoscevo la strada per raggiungere la chiesa, ho dovuto chiedere informazioni. Tutti gentilissimi.
Aspetto qualche minuto, vicino a me una bimba gioca con suo padre. La madre ha lo straccio in mano e pulisce il pavimento. Arriva Don Miguel Pertini, occhi azzurri, viso angelico. Mi presento. Solo un sorriso, poi con tono pacato: “Si faccia un giro per lo Zen”. E la porta dell’ascensore si chiude alle sue spalle. “Gliel’avevo detto”. Aveva ragione l’uomo con i pantaloni giallo fluorescente. Ma forse non aveva ragione a minimizzare: “Come esagerano i giornali. C’ero io quel pomeriggio. Sono entrati due ragazzi solo per parlare. Ho capito che tirava aria brutta e ho detto al parroco che avrei chiuso io i cancelli. Sono uscito e c’erano otto persone fuori, con dei bastoni in mano. Altro che trenta, con i coltelli. Non esageriamo”.
Solo poche parole poi mi dice che deve lavorare. Così rimango sul marciapiede davanti a palazzi tutti uguali che si affacciano su una landa sterrata. Doveva essere un prato. Forse un campetto di calcio. Oggi è solo un ammasso di spazzatura. Eppure i bambini corrono, ridono, sembrano felici. I motorini sfrecciano. Tutti senza casco. L’odore dei panni stesi si mescola al tanfo dei rifiuti.
Mi rimetto in moto, devo raggiungere la scuola “Giovanni Falcone”, via Trapani Pescia. Chiedo indicazioni a un ragazzo, è in macchina, mi dice di seguirlo. L’istituto si trova in fondo a un largo stradone, attraversato da viuzze strette e poco trafficate. Nell’atrio quattro bidelli chiacchierano tra loro. Chiedo del preside. Pochi minuti ed ecco Domenico Di Fatta, uomo distinto, dai capelli radi e grandi occhiali da vista. Si ferma a parlare con un bambino appoggiato al muro con aria annoiata: “Perché sei qui?”, “Niè, aspetto me frate”. L’orecchino gli luccica sul lobo sinistro. La tuta di topolino è macchiata di cioccolata. “Non ci vai a scuola?” glielo chiedo fissando quei suoi grandi occhi nocciola. “Mi comincia il 21”.
L’ufficio del professor Di Fatta dà sul cortile interno. Alle pareti ritagli di giornale incorniciati in plexiglass. Dietro la sua poltrona un cartellone con un fiore e la scritta “Sei il preside migliore del mondo”. Me lo mostra con orgoglio, ma s’incupisce quando ripensa all’attacco gratuito che ha subito la scuola: “Questo non è normale vandalismo. Una volta ogni 15 giorni arriva qualcuno, spacca un vetro, rompe un armadio e se ne va. A volte neanche chiamiamo la polizia”. Guarda fuori dalla finestra e quando bussano alla porta grida “Occupato, tornate dopo”. E continua: “E’ stato un assalto premeditato. Abbiamo trovato i fili dell’impianto di videosorveglianza tagliati. Aule incendiate e sanitari distrutti”.
Sono tanti i bambini che frequentano l’istituto comprensivo Giovanni Falcone. Dalla scuola materna alle medie. Alcuni, terminata la quinta elementare, non si presentano l’anno successivo. Altri seguono i genitori nei pellegrinaggi al nord Italia in cerca di lavoro. “I nostri alunni spesso seguono il destino dei padri e delle madri che scappano da qui. È gente semplice, anche loro dicono che lo Zen fa schifo”. Mantiene un tono basso il preside Di Fatta. Nelle sue parole si avverte il rammarico, ma anche la speranza di poter cambiare le cose. “Questo quartiere è rovinato da quelle poche persone che non vogliono migliorare. I ragazzi sono sempre qui perché la scuola è l’unico punto di riferimento che hanno. Scavalcano addirittura i cancelli, entrano in classe, vengono a trovare le fidanzatine. A 10 anni sembrano già uomini maturi”.
I lavori di ristrutturazione sono a buon punto. Le aule della materna saranno agibili tra fine settembre e inizio ottobre. La palestra è color salmone. Ogni classe ha una tinta diversa, dal turchese al giallo, dal verde all’arancio.
Mi accompagna a visitarle uno dei bidelli, Michele Affronti. Vive allo Zen da sempre, ha due figli, 16 anni la ragazzina, 10 il piccolo. Con l’aria del padre attento e di gran lavoratore, parla cercando comprensione: “Tutto il mondo è paese. La gente ha paura di farsi una passeggiata qui, pensano di subire furti, violenze. Ma non è così. È un posto tranquillo. E se c’è un po’ di delinquenza è la stessa che si trova ovunque”.
Affronti ha una sua scala delle responsabilità e definendo “ragazzate” gli atti vandalici subiti dalla scuola racconta che non c’è collaborazione da parte della polizia: “Non vedo mai una volante, hanno paura pure loro”.
Eppure la buona volontà non manca. Preside e maestre avevano avviato quel progetto per costruire un campo di calcio e una palestra per corsi di atletica. Una sorta di centro sportivo che avrebbe permesso a bambini e ragazzi di non giocare per strada. Un progetto bruscamente rinviato per colpa dei vandali.
Luisa Damiano e Paola Ruggeri ascoltano la conversazione tra me e il loro collega Affronti. La più determinata è Luisa, 41 anni, madre di quattro figli: “Questo quartiere va a rotoli perché il sindaco e tutti ci hanno dimenticati. Promette e non mantiene mai. Aveva deciso di costruire un campo di calcetto proprio qui fuori, neanche due settimane e hanno bloccato i lavori. Se prendi un impegno fallo, invece di sprecare soldi in macchine e viaggi in America”. Ben truccata, con i capelli rossi e un atteggiamento audace s’infervora: “Autorità, presidenti e assessori qui arrivano, promettono e se ne vanno. Non mi sono mai vergognata di vivere allo Zen. Ho cresciuto i miei figli senza marito e adesso sono tutti sistemati. Uno è in Germania. Gliel’ho spedito io quando un giorno l’ho beccato con una canna in mano”.
Paola Ruggeri, occhi blu penetranti e voce rauca della fumatrice accanita, scatta in piedi e esclama: “Il problema è la disoccupazione. I ragazzi non lavorano, per questo poi fanno cose strane. Ci hanno abbandonato, noi non siamo cattivi”.
E i bambini di 12 anni che spacciano agli angoli delle strade? Non si tratta più di disoccupazione, loro dovrebbero andare a scuola no? Mi stringe le mani, quasi a cercare complicità, poi conclude: “Cu pratica u zoppu all’annu zuppichia. Ha capito signorina?”
Difficile capire questa Gomorra palermitana, ma una cosa è certa, non bisogna abbandonarla.
Come chiedono Luisa, Michele, Paola e tanti altri residenti di questo quartiere dimenticato, invitando gli amministratori a garantire sicurezza, sistemare le fognature e ripulire le strade dai rifiuti. È l’Sos che ti resta dentro quando vai via e ti lasci alle spalle un luogo che sembra lontanissimo, soprattutto dalla Palermo di autorità, presidenti e assessori.
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17 Settembre 2009, 19:06