04 Settembre 2016, 18:28
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PALERMO – Quella di Giobattista Pulizzi fu molto più di una dissociazione plateale dal figlio e neo pentito Gaspare. Quando gli agenti andarono a bussare alla porta della sua abitazione, a Carini, per offrirgli protezione e un trasferimento in un posto sicuro, il sessantottenne speronò la macchina della polizia con la motrice di un autocarro.
Nessun ferito, ma sarebbe potuto andare peggio se solo le ruote del mezzo non avessero iniziato a girare a vuoto sul terreno quando Giobattista Pulizzi era ormai pronto per lanciarsi contro quel che restava della macchina dei poliziotti. Era il 2009, pochi giorni dopo che il figlio aveva deciso di sbattere la porta in faccia a Cosa nostra. Lo avevano arrestato due anni prima in un villetta a Giardinello assieme a Salvatore e Sandro Lo Piccolo, allora signori del mandamento di San Lorenzo e oggi detenuti all’ergastolo. Perché quando qualcuno si pente quasi sempre ci sono dei parenti pronti a rinnegarlo.
La storia si è ripetuta nei giorni scorsi nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo. Da alcuni mesi, come aveva raccontato Livesicilia, uno dei figli del Borgo, Giuseppe Tantillo, ha iniziato a parlare con i pubblici ministeri. I cronisti di Repubblica sono andati a interpellare i parenti e hanno raccolto la più tranciante delle frasi: “Per noi è morto”.
A pensarci bene ancora più nette erano state le parole dei familiari di Fabio Tranchina. Il picciotto di Brancaccio si è pentito nel 2011 dopo giorni di tira e molla. Prima disse ai magistrati di Firenze di volere raccontare “tutto quello che so e che vi può servire”. Poi, la retromarcia. Un incontro con la moglie, nel capoluogo toscano, sembrava aver cambiato il corso delle cose. Non aveva più la “serenità mentale” per seguire fino in fondo la sua scelta. Infine, la retromarcia della retromarcia. E i parenti ne negarono persino l’esistenza con un gelido “non sappiamo chi sia”.
Tranchina ha dato il suo contributo alle indagini sulle stragi del ’92 -’93, sul solco di quanto fatto da un altro mafioso di Brancaccio, Gaspare Spatuzza. I parenti di quest’ultimo si affidarono addirittura a una nota stampa per comunicare che “non abbiamo più rapporti, nessuno di noi va più a trovarlo”. Parole inequivocabili accompagnate, a volte, da gesti necessari per sgombrare il campo dal dubbio. La moglie di Marco Favaloro, pentito che accusò il boss Salvino Madonia di essere il mandante dell’omicidio di Libero Grassi, se ne andò per mesi in giro vestita a lutto. Giovanna Cannova, madre di Rita Atria, la giovane di Partanna che si suicidò sconvolta per la morte di Paolo Borsellino a cui aveva raccontato i suoi segreti, fu ripudiata dalla madre persino da morta. Non andò al funerale e dopo che seppellirono distrusse a colpi di martello la fotografia sulla tomba della figlia.
Impossibile capire, il più delle volte, se dietro la pubblica dissociazione dal pentimento di un parente ci sia il timore di una vendetta trasversale oppure lo sdegno per una scelta non condivisa. Uno sdegno figlio esso stesso di una mentalità mafiosa. Di certo, in passato, nel sangue dei parenti si è lavata l’onta dell’infamia. Figli, cugini, cognati: si contarono undici morti nella guerra che i boss dichiararono a Tommaso Buscetta. Gli sterminarono la famiglia, comprese persone che neppure sapevano di avere avere un parente boss.
A Francesco Marino Mannoia, il chimico che raffinava l’eroina per le cosche, uccisero la madre e la sorella. Non tapparono la bocca neppure a Santino Di Matteo, nonostante ci provarono con la più abominevole delle strategie. Gli rapirono il figlio. Giuseppe aveva undici anni. Lo tennero ostaggio per 800 giorni prima che Giovanni Brusca decidesse che era giunta l’ora di liberarsi del cagnolino. Lo strangolarono e distrussero con l’acido quel corpicino già umiliato dalla prigionia. Fu lo stesso Brusca a raccontarlo quando si pentì.
Storie di pentiti e di parenti che si dissociano. Esiste un’altra possibilità, però. Giuseppina Spadaro e Angela Marino avevano sposato due mafiosi e si ritrovarono, senza averlo messo nel conto, ad essere mogli di due pentiti, i fratelli Emanuele e Pasquale Di Filippo. La loro prima reazione fu durissima. Chiamarono addirittura la redazione palermitana dell’Ansa per mettere le cose in chiaro.”Siamo le ex mogli di quei due pentiti bastardi… meglio morto che pentito”. Ci sono voluti degli anni, ma l’epilogo è stato diverso. Le due donne, alla fine, scelsero di raggiungere i mariti nelle località protette. Nel 1997 la Spadaro, che era pure figlia di don Masino, il reuccio della Kalsa, prese carta e penna per scrivere alla Corte d’assise davanti a cui si celebrava il processo per la strage Borsellino: “Cosa Nostra, due parole che significano morte e distruzione, e solo oggi, che grazie ai magistrati e al Servizio Centrale di Protezione ho potuto riabbracciare mio marito, ho capito quanto è bello vivere lontano da Cosa Nostra, io che ci sono nata e cresciuta e ho dovuto ripudiare pubblicamente mio marito per paura. Oggi sono felice di non far più parte di quel maledetto sistema che ha distrutto la mia vita e quella di mio marito”.
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04 Settembre 2016, 18:28