Per lui una condanna a 10 anni|nel processo Borsellino-bis

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19 Settembre 2011, 22:31

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Il suo nome fu tirato fuori da Vincenzo Scarantino. Quello stesso Scarantino a cui oggi la giustizia italiana ha smesso di credere. Su molte cose, ma non su questa: Giuseppe Calascibetta, stando a una sentenza definitiva e non coinvolta nella revisione del processo Borsellino, era un uomo d’onore, con una “lunga carriera criminale” nel quartiere della Guadagna e con “rapporti privilegiati con esponenti mafiosi”, tali da “essere legittimato a costituirsi quale arbitro nel conflitto tra Gambino e Tullio Cannella”.

Non era certo l’accusa peggiore, in quel processo. Secondo Scarantino, infatti, Calascibetta era l’uomo d’onore che mise a disposizione del Gotha di Cosa nostra la villa nella quale si decise di far esplodere l’autobomba che sarebbe costata la vita a Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. Non solo: il pentito inattendibile gli attribuì un ruolo legato proprio a uno dei punti sui quali la sua versione stride con quella di Gaspare Spatuzza: “Al termine della riunione (a casa Calascibetta, ndr) – disse Scarantino – Aglieri, Profeta e Calascibetta mi diedero il duplice incarico di reperire un’autovettura di piccole dimensioni da usare quale autobomba e una bombola contenente una sostanza chimica, la cui denominazione Aglieri aveva annotato su un foglietto, idonea a potenziare gli effetti deflagranti dell’esplosivo”.

I giudici, però, non lo condannarono mai per strage. Già nella sentenza di primo grado del cosiddetto Borsellino-bis, l’eventualità di una sua responsabilità nell’eccidio fu accantonata in favore della semplice associazione mafiosa: contro l’assoluzione per il capo d’imputazione più grave, il pm presentò ricorso in appello, senza però ottenere una condanna. Sul suo inserimento in Cosa nostra, però, la Cassazione non ebbe dubbi, forte di una sfilza di collaboratori in grado di fornire riscontri: “Di Filippo Pasquale – li elenca il dispositivo -, Anselmo, Drago, Mutolo, Favolaro, Augello, Marino Mannoia, Brusca ed altri, tutti sottoposti a verifica di attendibilità e con il supporto di elementi esterni”.

Insomma, stragista no, ma mafioso sì: per questo, Calascibetta fu condannato a dieci anni, una pena ampiamente superiore al minimo previsto dalla legge. Una condanna esemplare, inflitta per effetto del “periodo in cui Cosa nostra decise e portò a termine la strategia stragista, in considerazione della particolare pericolosità espressa dal sodalizio”, scrissero gli ermellini confermando la sentenza d’appello. Una pena finita di scontare quattro anni fa, quando Calascibetta, sottoposto a sorveglianza speciale, tornò a piede libero.

Non era il primo processo, per lui. Calascibetta, infatti, era stato prima coinvolto e assolto in primo grado nel processo “Tempesta” e poi accusato da Francesco Marino Mannoia di aver ucciso Benedetto Grado. Per quest’ultimo reato, in particolare, era stato condannato all’ergastolo. Il pentito, che si era autoaccusato del delitto avvenuto il 15 novembre 1983, l’aveva tirato in ballo insieme a Emanuele Mazzola e Pietro Aglieri: i tre – ma non Marino Mannoia, che in virtù di un accordo con gli Usa godeva dell’immunità per i delitti confessati in Italia – furono così condannati nel 1995. Calascibetta, in particolare, era accusato di aver partecipato all’omicidio a bordo di una Cinquecento che in realtà, carte alla mano, era stata rottamata due anni prima. Così, nel 2002, anche grazie a un testimone a sorpresa, il processo fu riaperto e la sentenza annullata. Rimettendolo in libertà. Quella che oggi, a quasi un decennio di distanza, gli è costata la vita.

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19 Settembre 2011, 22:31

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