Perché non scriviamo di suicidi

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31 Maggio 2012, 17:11

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Ieri un bambino ha tentato di impiccarsi. Trovate la notizia su tutti i giornali. Noi abbiamo scelto di non scrivere una riga. Crediamo – fermamente crediamo – che il dolore sia contagioso, che la disperazione sia un virus terribile, che il crollo di un’anima – grande o piccola – dentro un corpo diffonda i sintomi di uno schianto destinato a propagarsi. Abbiamo pubblicato il necessario sul tentato gesto estremo, vero o presunto, di Bernardo Provenzano. Nel caso la sovrabbondanza mediatica del personaggio ce lo imponeva. Altrimenti preferiamo il silenzio. Per i bambini che ci provano, per gli imprenditori strangolati dalla crisi che cedono, per tutti coloro che, da qualche parte del loro buio, decidono di precipitare giù, nella voragine senza ritorno.

Ogni giornale ha un’idea dei propri lettori. C’è chi li considera, appunto, lettori e basta. Occhi che hanno il diritto di sapere. Menti a cui fornire gli strumenti dell’opinione. Recipienti di fatti che vanno convogliati verso la fornace dell’informazione senza discrimine, né distinguo. Sarà l’utilizzatore finale a porsi il problema, a selezionare. C’è chi immagina i lettori alla stregua di sudditi. Serventi di un interesse della proprietà, massa da indirizzare nei pascoli più funzionali alle esigenze dell’editore. Nella concezione del lettore-mucca da spremere, ogni filo d’erba è soppesato e misurato, secondo i criteri della convenienza.

Noi vediamo nei nostri gente come noi. Persone. Che hanno scatti d’indignazione simili, sentimenti, guai, spiragli di chiarore e lunghi viottoli in ombra da percorrere, se possibile, tenendo per mano qualcuno. Ci piace immaginarci come una mano che sorregge ed è sorretta. Siamo tra persone, nella casa di Livesicilia. E, da persone, conosciamo la forza distruttrice di certi tunnel, quando intorno ognuno narra esclusivamente l’oscurità. Non è nostro compito occultare le notizie del disastro. Ma nella vocazione del cronista c’è il senso del limite. Esistono cadute privatissime che è meglio non sottolineare.

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Non perché sia onesto mentire sul dolore. Per evitare il contagio, il virus dell’emulazione, il patologico e sofferto naufragio di chi sceglie di stampare la ferita incurabile come messaggio conclusivo. L’ultimo pizzino in bottiglia, con o senza parole, nella deriva di sé.

 

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31 Maggio 2012, 17:11

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