"Perché non si può andare al bar?| "Non c'è equità e noi affondiamo" - Live Sicilia

“Perché non si può andare al bar?| “Non c’è equità e noi affondiamo”

I commercianti di Palermo scrivono al premier Giuseppe Conte e al governatore Nello Musumeci

PALERMO – Più che una lettera aperta è un grido di allarme che parte da un settore, quello del commercio, che vive più di altri il dramma di una crisi senza precedenti causata dal Coronavirus e guarda al futuro con incertezza.

La lettera sarà consegnata oggi, nel corso di una videoconferenza, all’assessore comunale alle attività produttive Leopoldo Piampiano per girarla al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al governatore siciliano Nello Musumeci.

Il grido è partito dal basso, dai commercianti, da chi la mattina alza una saracinesca e si accolla il rischio di fare impresa in una giungla di tasse e balzelli. Le tasse su cui si regge per larga parte lo Stato nel Sud Italia. È il gesto di chi sta affondando, ma non vuole arrendersi, per la chiusura forzata che uccide le attività commerciali. È stato subito accolto dal presidente della Cna di Palermo Giuseppe La Vecchia e dal segretario Pippo Glorioso.

La lettera racconta l’angoscia di uomini e donne, di intere famiglie: “Sono settimane che il settore del commercio, tranne rare eccezioni, vive una fase drammatica di chiusura, imposta dalla attuale emergenza sanitaria e da tutti i numerosi decreti del presidente del Consiglio dei ministri che ne sono seguiti. È superfluo dilungarsi sulle conseguenze occupazionali ed economiche, evidenti a tutti, che il perdurare di questa chiusura riverbererà sulla economia nazionale, nel settore privato e non solo”.

C’è il dramma per la situazione attuale e la paura per quella che verrà: “Come tutti viviamo in primis nel costante rispetto delle regole, ma soprattutto dei rumors relativi alle decisioni del comitato scientifico sulle possibili riaperture”.

È il futuro che angoscia: “Notiamo con una certa preoccupazione che le possibili misure volgono ad uno scenario futuristico e surreale, dove, più che porre l’attenzione sulle soluzioni per garantire la ripartenza con le prescritte misure di distanziamento sociale e l’uso di guanti e mascherine per avventori e operatori, si paventa già la drammatica prospettiva, per di più troppo lontana (addirittura prevista per fine giugno), di ingressi in solitaria all’interno di locali di 40 mq, di cene schermati da paratie in plexiglass e distanziamento tra gli stessi commensali seduti ad uno stesso tavolo. E potremmo continuare”.

Sono le scelte fin qui adottate per contenere l’epidemia che hanno suscitato critiche: “Rimane un mistero ai nostri occhi da profani la ‘motivazione scientifica’ per la quale si è mantenuto, ad esempio, il funzionamento di distributori automatici, creando assembramenti davanti agli stessi (com’è ovvio che sia) e con l’aggravante dell’assenza di un operatore di controllo, personalmente esposto alle eventuali responsabilità, e ancora si consentirà dal 4 maggio alla gente che ritiene di potere tornare a usufruire di mezzi pubblici affollati, ma non di bere un caffè o mangiare una pizza con tutte le cautele del caso”.

Una stortura, una disparità di trattamento, perché dicono i commercianti “ci saremmo aspettati, all’interno di una logica più equa, una apertura paritaria o quasi, di tutte le attività in grado di osservare le misure di distanziamento sociale imposte dalla situazione contingente, possibilmente offrendo soluzioni operative per garantire una ripartenza in sicurezza e senza cali occupazionali, anche ad esempio con previsione da parte dei Comuni della possibilità di usufruire (temporaneamente e gratuitamente) del suolo pubblico antistante i locali, per potere ospitare la clientela ampliando gli spazi a disposizione”.

La conclusione è amara: “Il nostro settore viveva una crisi già profonda e, tolta la misura di ulteriore indebitamento bancario, unica e sola ad oggi prevista, non godrà presumibilmente di nessun altro aiuto concreto. Unitamente a questo si troverà in futuro a dovere affrontare il problema più rilevante e cioè la giustificata paura degli avventori di tornare a frequentare un locale pubblico. La Sicilia (e il sud in genere) non gode a differenza di molte aree del nord (cui va tutta la nostra solidarietà) di un tessuto economico fatto di grande industria. Sono dati noti a tutti quelli che ci ricordano che il 69% della occupazione siciliana rientra nel settore commercio, turismo e servizi. La nostra non vuole essere una lettera di accusa, bensì il grido di allarme di una categoria che da sempre contribuisce alla tenuta economica e sociale di questo Paese e tale vorrebbe continuare ad essere”.

 


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