05 Dicembre 2021, 06:39
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CATANIA – Occhi puntati su Palermo. Allo Sperone. A quelle storie di spaccio che hanno – purtroppo – bimbi per protagonisti. Giovani fanciulli che guardano genitori e nonni preparare le dosi di droga sul tavolo della cucina. E se all’inizio sembra un gioco, poi diventa la ‘formula’ per portare a casa i quattrini per arrivare a fine mese. Una fotografia immortalata dai tanti blitz degli ultimi mesi. E in quelle carte giudiziarie si trovano storie nelle storie. La Procura ha messo nero su bianco la necessità di portare via i figli dello Sperone e dare un’alternativa di vita. In mezzo a tutto questo c’è la stragrande maggioranza di un quartiere che non ‘vuole etichette’ ed ha fame di riscatto.
A Catania sembra un film già visto. Un dejavù che si ripete blitz dopo blitz. Librino, San Cristoforo, San Giovanni Galermo. Un destino che unisce le due città: Catania e Palermo. Anzi. Forse è comune a tutte le periferie, dove si è calato cemento senza una progettazione urbana che pensasse alla socialità, all’inclusione, alla mobilità. Alla connessione con il centro. Non si è costruito un quartiere legato e collegato alla città. E così facendo è diventato il ghetto della città stessa.
C’è un vuoto di strutture, punti di riferimento, luoghi di aggregazione. E in questo vuoto fa da supplente il boss, il signore della droga, il mafioso di turno. Chiamatelo come volete.
Lunedì scorso, ad Enna, nel corso del convegno di MedMez dedicato al saggio di un secolo fa ‘Nel regno della mafia’ di Napoleone Colajanni, il magistrato Alfonso Sabella ha raccontato della cattura del boss di Cosa nostra Pietro Aglieri. Andò a interrogarlo quasi sicuro, vista la sua redenzione religiosa, che avrebbe intrapreso un percorso di collaborazione. Ma invece le parole del boss furono un pugno allo stomaco. Perché Aglieri gli fece capire che la mafia si alimentava lì dove le Istituzioni erano latitanti. Assenti. Dove chi non aveva come sbarcare il lunario trovava i mafiosi a tendergli la mano. Diventando un ufficio di collocamento. “Dove è lo Stato dopo gli arresti?”
A fare da eco a quelle parole è stato anche Claudio Fava, presidente della Commissione regionale Antimafia, che ha citato alcune audizioni nell’ambito dell’inchiesta sulle devianze minorili. E ha parlato di Catania, dei numeri inquietanti dell’abbandono scolastico snocciolati dal presidente del Tribunale dei Minori etneo Roberto Di Bella. Ha raccontato di giovanissimi che inseguono il mito di Nitto Santapaola. Nonostante da tre decenni il padrino di Catania sia al 41bis, è diventato “il punto di riferimento” (criminale) delle nuove generazioni. Un quadro aberrante che è frutto di una politica della repressione e non della prevenzione.
Le associazioni di volontari, i centri sportivi, le scuole fanno piccoli miracoli. Le mamme di questi rioni sono delle gladiatrici. E alcune volte, sono loro, con le lacrime agli occhi, che hanno chiesto ai giudici di portare i propri ragazzi via da Catania, perché da sole non riescono a tenerli lontani da quei giri infernali. Ultimamente anche un boss dal 41bis – ha raccontato il presidente Di Bella – avrebbe lanciato un appello affinché a suo figlio fosse data l’opportunità di crescere in un altro ambiente. Ma è davvero questa la cura? Strapparli alle braccia dei loro cari, alle strade del quartiere dove hanno fatto i primi passi, dove hanno dato il primo calcio al pallone, appare proprio come il sintomo di un fallimento. Allora lavoriamo al concime. Invece che scegliere di estirpare ‘la mala erba’, che ricrescerà, bisogna coltivare con pazienza. La terra è fertile. È lì che germoglierà il futuro.
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05 Dicembre 2021, 06:39