26 Marzo 2022, 05:58
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CATANIA – Tutto il mondo della sanità siciliana si prepara a spendere i 797 milioni di euro che il Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza, assegna alla Sicilia per realizzare nuove opere e infrastrutture sanitarie. Il piano sanità, approvato due settimane fa all’Ars, ha dato il via libera alla realizzazione di centinaia di interventi che dovrebbero dare un grande impulso alla cosidetta medicina del territorio, ovvero quelle strutture piccole e di prossimità che fanno da primo contatto con i cittadini e da filtro verso le strutture più grandi e moderne, i grani ospedali nelle città.
Ospedali di comunità, case di comunità e centrali operative territoriali si affiancheranno alla rete ospedaliera già approvata nel 2019, e dovrebbero diventare i nuovi punti di riferimento per i cittadini. Ma in che modo funzionerà la nuova sanità territoriale? Cosa devono aspettarsi i siciliani, e quali problemi potrebbero sorgere? Ne parla Franco Luca, referente per l’Asp di Catania per il Pnrr e direttore del Dipartimento delle attività territoriali.
La possibilità che arriva con i fondi del Pnrr è, per Franco Luca, quella di rilanciare la sanità territoriale siciliana, di cui si sono visti sia i limiti che il potenziale soprattutto negli anni della pandemia da Coronavirus: “Possiamo finalmente porre le basi per avvicinare la sanità e le realtà territoriali – dice Luca – creando strutture che abbiano un impatto su bacini di 40, 50 mila persone, che le conoscano bene, che sappiano prendersi carico dei loro problemi”.
Ma come opereranno gli ospedali di comunità, le case di comunità e le altre strutture previste dal Pnrr? “Si tratta di strutture in cui si portano i pazienti fragili e si prendono in carico – dice Luca – in cui ci sono un medico, uno specialista e un infermiere su tutte le ventiquattro ore. Non solo, ma questi professionisti potrebbero fare servizio sia esterno che interno, visitando a casa i pazienti che non hanno bisogno di raggiungere la casa di comunità, e facendo un ampio uso della telemedicina, che potrebbe essere un grande miglioramento: il paziente, se può, preferisce essere seguito a casa propria, e con un buon uso della telemedicina potremmo creare il domicilio come grande reparto ospedaliero diffuso, in cui i pazienti sono monitorati con strumenti da remoto e i medici intervengono quando necessario”.
Tutto questo servirebbe comunità da circa 40 mila persone, che ricorrerebbero agli ospedali più grandi solo nei casi più gravi: “A coordinare il sistema e il passaggio da una struttura all’altra – spiega Luca – saranno le centrali operative territoriali, che, ad esempio, segnaleranno e seguiranno le dimissioni di un paziente da un ospedale e la sua assegnazione a una casa di comunità. Questo è un processo che già oggi avviene, in parte e su alcune strutture, ma solo su iniziativa dei parenti del paziente. Abbiamo la possibilità, invece, di strutturare un sistema che si fa carico di tutte queste cose”.
Di cosa ha bisogno un’organizzazione del genere, per partire e radicarsi? “Innanzitutto – dice Luca – di studio. Serve conoscere bene il fabbisogno di un territorio, per cui si sa, ad esempio, che in una certa zona ci vivono 40 mila persone, che il 12 per cento sono anziani, che tra questi c’è una maggiore incidenza del diabete o di una particolare malattia cardiovascolare… Poi sulla base di tutto questo si possono progettare e pianificare i servizi da erogare”.
Servono, poi, le persone che lavorano nelle strutture: “Ogni attore, che sia un medico, un infermiere o uno specialista, deve avere il proprio ruolo, e questo si può raggiungere solo con accordi chiari. In più servono proprio dei giovani medici, da formare velocemente, in modo da non dovere aspettare che finiscano la specializzazione per avere forze fresche. In questo modo, tra l’altro, lanceremmo i giovani subito nella sanità di domani, invece di risucchiarli in modelli vecchi”.
Cosa potrebbe ostacolare questo nuovo modello di sanità territoriale? “Ci sono due ordini di problemi – dice Luca – il primo è di ordine politico e amministrativo: il decreto ministeriale 71, che detta le linee guida sulle strutture da realizzare, ancora non c’è. Esiste una bozza che ancora non è stata approvata, e dunque c’è ancora del margine di incertezza”.
“L’altro problema è il personale – dice Luca – chi lavora nelle strutture? Si sa che nelle case di comunità sono previsti medici, specialisti e infermieri, ma come si fa a garantire 24 ore di presenza? Con quali condizioni? Si deve capire quale con quale modello organizzativo concreto si vuole impostare il sistema, con, ad esempio, un monte ore per ogni medico da trascorrere nelle strutture, altre ore da passare in visite a domicilio e così via. Una volta risolti questi nodi, però, quella che abbiamo davanti è una grande opportunità per rivoluzionare la medicina territoriale, facendo tornare il medico di famiglia a fare il medico”.
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26 Marzo 2022, 05:58